Il matrimonio celebrato il 31 agosto 1804 nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta di Pievebovigliana tra Stefano Cianni e Domenica Bugatti è uno di quegli eventi che di certo si ricordano in una piccola comunità rurale di un’area interna e montana della provincia di Macerata, che conta poco più di cinquecento abitanti.
Stefano appartiene al ristretto novero dei possidenti dell’intero territorio comunale, non più di cinque, che tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento registra un estimo superiore ai 900 scudi. In tal senso, egli è consapevole di rappresentare un punto di riferimento per il suo paese. Fin dal 1798, quando non ha ancora trent’anni, Stefano è tra gli esponenti di spicco del consiglio della comunità e gestisce tutti gli affari e il patrimonio di famiglia accresciuto nei decenni precedenti dal padre e dal reverendo Francesco Maria, suo zio. Stefano è al suo secondo matrimonio (ce ne sarà anche un terzo); la prima moglie, morta soltanto tre mesi prima della nuova unione con Domenica Bugatti, non gli ha dato l’atteso maschio in grado di continuare la discendenza. Dopo un bambino nato morto e l’ennesima femmina, finalmente, nel 1811, Stefano può portare al fonte battesimale il figlio Carlo. Altri maschi nasceranno negli anni successivi dal terzo matrimonio, ma intanto Stefano può fondare su basi solide i percorsi di crescita e di affermazione della sua dinastia, destinata a rafforzarsi attraverso attente politiche matrimoniali. I suoi figli Carlo e Camilla concludono, infatti, i loro matrimoni all’interno di quella ristretta cerchia di possidenti che si pone al vertice politico e sociale della piccola comunità di Pievebovigliana.
Stefano Cianni non è un semplice possidente stimato da tutti i suoi concittadini, con un patrimonio fondiario in crescita grazie ai proventi di un mulino da grano, pronto a partecipare attivamente a tutte le diverse fasi politiche ed amministrative del suo Comune. Come possidente e notabile (è in questo modo che nel 1809 viene definito nel verbale di una seduta del consiglio comunale), Stefano è consapevole di ricoprire un ruolo decisivo nella definizione del profilo sociale e dell’identità stessa della sua comunità, dal momento che ne è una guida riconosciuta ed autorevole. Durante l’età moderna, nelle periferie dell’Italia pontificia, all’interno di territori segnati da un’evidente e continua frantumazione amministrativa, fonte di perenni conflitti giurisdizionali alimentati da un eterogeneo mosaico di competenze, privilegi e concessioni, e con una moltitudine di spazi urbani più o meno grandi caratterizzati da forti rivalità, sono proprio le famiglie dei notabili (aristocrazie in grado di resistere tenacemente al loro declino e borghesie in ascesa proiettate verso le stesse posizioni economiche e politiche delle prime) a rappresentare completamente le singole comunità, a dare continuità all’esercizio del potere, a definire i caratteri stessi di territori all’interno dei quali esse si muovono con una piena consapevolezza del proprio ruolo, consentendone un’immediata e facile individuazione.
Tutto ciò assume un’evidenza maggiore nei piccoli centri, negli spazi rurali e nelle aree più interne della dorsale appenninica. Stefano non è soltanto un riferimento politico per la sua comunità, ma anche economico, come titolare di una gualchiera e di una tintoria che negli anni Venti dell’Ottocento sono indicate come gli unici opifici del territorio comunale degni di essere menzionati. Nelle due piccole manifatture vengono purgati, rassodati «e si tingono con felice successo mezzolani di grosse tinte per uso de’ contadini. I suddetti opifici occupano per 10 mesi dell’anno 4 individui. Si lavorano nella gualchiera circa 10.000 braccia di mezzolani e saje e si tingono come sopra circa 6000 braccia dei medesimi».
L’impianto produttivo sorge a ridosso del castello di Pievebovigliana, dove si trova anche il palazzo di famiglia dei Cianni, dominato dalla chiesa plebale di Santa Maria Assunta. Si definisce, così, un luogo dal forte valore simbolico, che rappresenta fisicamente una comunità, come quella di Pievebovigliana, dispersa in tanti villaggi e piccoli nuclei abitati. Lo stesso capoluogo, per tutto il XIX secolo, resta suddiviso in due centri, il Castello e la cosiddetta Piaggiola (un insieme di case poste lungo un’unica via), collegati da un ampio spazio vuoto utilizzato come semplice campo per il mercato. Pur considerando le ambiguità che caratterizzano il concetto di comunità (Stefano Cianni ha sicuramente una percezione della stessa diversa da quella di un contadino dei suoi poderi o da quella che possono esprimere pastori e braccianti che si muovono lungo i sentieri delle migrazioni stagionali), non esiste a Pievebovigliana una vera e propria piazza che possa rappresentarne il cuore. Essa si definisce soltanto nel corso del Novecento attraverso la trasformazione, in tal senso, dell’area del mercato e grazie alla realizzazione di un tessuto edilizio capace di unire i due centri, finalmente dotati di una nuova e più equilibrata fisionomia. Fino ai primi decenni del XX secolo l’unico simbolo tangibile della comunità di Pievebovigliana è il Castello con la chiesa parrocchiale, che dall’alto della collina, con il suo campanile, domina l’intera vallata del fiume Fornace.
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