Giacomo Recchioni, Pikenoi. Antichità italiche della collezione «Vallorani», Andrea Livi ed., Fermo 2019, 416 p., ISBN 9788879694292.
Densi e accurati nella documentazione, i saggi riuniti in questo volume, introducono alla comprensione della preistoria e protostoria del Piceno e della sua costa alla luce di recenti scoperte.
Il primo saggio, intitolato Etnologia delle antiche popolazioni centro-adriatiche, tratteggia la complessa rete di scambi commerciali e di relazioni culturali che, fin dal periodo neolitico o forse anche dal mesolitico (8.000 anni b.p.: isola croata di Pelagosa), hanno solcato le acque del Mare Adriatico, dai commerci della preziosa ossidiana delle Tremiti, ai manufatti metallici, alla diffusione della ceramica attica, presente fino ad oggi in ben 45 siti archeologici del Piceno. Fin da tempi remoti, gli strumenti litici della facies “Centro-Adriatica” o “Abruzzese-Marchigiana” sono esattamente comparabili ai manufatti dell’opposta sponda, specie a quelli dell’isola di Hvar. Materiali di provenienza mesopotamico-anatolica hanno raggiunto i siti neolitici padani usando il mare interno come via privilegiata di comunicazione. La via dell’ambra, dai lontani giacimenti dei Balcani, raggiungeva la pianura padana attraverso l’Adriatico e da qui s’irradiava nella penisola attraverso la mediazione picena. Il santuario dedicato alla dea Cupra parrebbe testimoniare la presenza di rotte commerciali provenienti da Cipro, isola in cui era specialmente venerata la Venere-Cipride che, tra le sue funzioni, aveva anche quella di protettrice dei naviganti assieme a Fortuna cui era dedicato il fanum Fortunae che diede il nome a Fano.
Il secondo saggio, intitolato Un’arcaica principessa Adriatica e il suo popolo, riassume i dati forniti dalla straordinaria sepoltura della dama picena che ha meritato a pieno titolo di essere chiamata “Regina di Numana”. La straordinaria qualità e quantità dei reperti del corredo funerario rinvenuto nel perimetro di un probabile tumulo, oltre alla peculiarità di alcuni di essi, permette di ascrivere questa donna vissuta nel VI secolo a.C. tra le più potenti ed enigmatiche sovrane dell’intero bacino mediterraneo. Il ritrovamento mette in crisi la classica concezione del ruolo della donna espressa dalla celebre epigrafe romana Casta fuit lanam fecit domum seruauit. Non sappiamo se la “Regina di Numana” fu casta, ma certo nella sua qualità di sovrana dovette comportarsi secondo le regole dettate dagli dèi e trasmesse dagli avi. Regole che, nel suo caso, non le impedivano di svolgere il ruolo di simposiarca, di bere vino e libarlo da una speciale oinochoe che suggerisce un uso anche rituale del recipiente. Tra le figure dipinte sulle ceramiche, quella di Artemide a cavallo suggerisce di attribuire alla sovrana una vocazione magico-guerriera: quella di una donna-amazzone dotata di una “verginità” non anatomica ma non ancora sottoposta al giogo matrimoniale. Una verginità che assimilava Artemide a un’orsa selvaggia e che, alla vigilia delle nozze, imponeva alla ragazza di svestirsi del mantello di pelliccia d’orsa sacro ad Artemis Brauronia. Di certo sappiamo che la “Regina di Numana” lanam fecit perché venne sepolta con due telai, uno fisso e uno portatile. In quanto al domum seruauit, dovette provvedere a conservare la domus comune dei suoi sudditi e dovette farlo esercitando anche l’imperium militiae: le armi e i carri, da guerra e da parata, che facevano parte del suo corredo le furono trasmessi da precedenti generazioni regali. I grandi vasi, plasmati e dipinti da pittori attici che si attennero a precise istruzioni dei committenti piceni, raffigurano agoni tra atleti/combattenti maschi e femmine e suggeriscono che l’illustre dama di Numana non si limitasse ad assistere a tali agoni dalle tribune d’uno stadio ma vi partecipasse di persona. S’avverte una componente “spartana” in questa sovrana picena la quale, tuttavia, non le impediva di soddisfare il femminile amore per la cura della persona e per i gioielli: la sua veste era ornata da granuli d’ambra e pasta vitrea e facevano parte del suo corredo circa 1.000 fibule, varie in ambra e avorio, oltre a una grande quantità di conchiglie cyprae importate dal Mar Rosso o dall’India, ancestrali simboli di fecondità che esprimono, in questo contesto, una delle funzioni del sovrano: garantire attraverso l’esercizio dell’imperium divinamente concessogli la fertilità della terra e la riproduzione del bestiame e della specie umana: una funzione inerente all’imperium, vocabolo derivato da “partorire”.
Nel prologare questo volume di prossima pubblicazione, ne raccomandiamo la lettura augurandoci che altri saggi dedicati a un pubblico non specialistico ma attento alla storia e alle tradizioni avite, abbandonando l’astruso argot degli addetti ai lavori ma senza tradire l’impegno scientifico, facciano conoscere altri aspetti dell’antica e illustre storia del popolo piceno.
Mario Piola