«Noi ritroveremo la via per ritornare sul Carso». La disfatta e la rivincita in Caporetto di Mario Puccini

Il sociologo Pierre Bourdieu, nel saggio su Le champ littéraire, scrive: «Le champ littéraire […] est un champ de forces agissant sur tous ceux qui y entrent, et de manière différentielle selon la position qu’ils y occupent […], en même temps qu’un champ de luttes de concurrence qui tendent à conserver ou à transformer ce champ de forces. […] La science des oeuvres culturelles suppose donc trois opérations nécessaires et nécessairement liées: premièrement, situé le champ littéraire au sein du champ du pouvoir, avec lequel il est dans le rapport du microcosme au macroscosme; en second lieu, analyser la structure interne du champ littéraire, univers obéissant à ses propres lois de fonctionnement et de transformation, […] enfin, analyser les habitus des occupants de ses positions, c’est à dire les systèmes de dispositions qui […] trouvent dans cette position une occasion plus ou moins favorable de s’actualiser».

Credo che questo metodo presenti un’efficace operatività euristica in particolare nella memorialistica della prima guerra mondiale, in opere in cui la tipologia della rappresentazione della realtà ha favorito la creazione di una doxa nazionalista ed ha svolto un ruolo decisivo nella costruzione dell’identità nazionale.

Proprio in quest’ambito il costituirsi di un habitus collettivo attraverso la narrazione è emblematico della riduzione del principio di autonomia della letteratura sottoposta alle pressioni eteronome del potere politico e della retorica interventista.

I diari di guerra di Mario Puccini non sfuggono a questa dialettica e lo scrittore senigalliese ne è consapevole, nel momento in cui denuncia, a distanza di qualche mese dalla fine della guerra, l’assenza di un’interpretazione soggettiva da parte di coloro che hanno vissuto l’esperienza bellica, favorendo il radicamento delle verità ufficiali, impostate sul trionfalismo delle ‘radiose giornate’ del maggio 1915 e sul mito risorgimentale della liberazione dallo straniero: «Nei numerosi diarii e libri di guerra che abbiamo letto fino ad oggi, il combattente non ha tentato mai, o quasi, un giudizio sui fatti di cui è attore. Due ragioni gli vietavano qualunque tentativo di giudizio o di apprezzamento: la prima, dovuta a un fatto tutto morale e interno, per il quale un ufficiale o soldato combattente, se anche vede storture o errori, non s’attenta a giudicarli; la seconda, di minor portata, dovuta a un movente esterno, la censura: o il pericolo che, sul diario, possano cadere occhi di superiori».

Chiamato alle armi nella primavera del 1915 come soldato semplice, all’inizio del 1916 è sul Carso e nel maggio sull’altipiano di Asiago dove partecipa alla battaglia degli Altipiani.

Nominato sottotenente, dopo un corso d’addestramento alla scuola di guerra, dal settembre 1916 fa parte del II battaglione del 47° reggimento fin quando nel novembre viene ferito a Oppacchiasella, una località nei pressi di Doberdò del Lago, ora Opatje Selo in Slovenia, dove tra il luglio 1916 e l’estate del 1917 si svolsero combattimenti furiosi tra austriaci e italiani.

Davanti a Trieste, pubblicato da Sonzogno nel 1919 ed ora riedito nel 2016 da Mursia, è il diario di quei giorni dall’arrivo al reparto fino al ferimento.

Tra il 24 ottobre e il 19 novembre 1916, arruolato nella brigata “Veneto”, Puccini vive la tragica vicenda della ritirata di Caporetto dall’Isonzo fino al Piave.

Viene congedato probabilmente nel dicembre 1918.

Antidannunziano con venature anarchiche, vicino al situazionismo vociano, egli considera la guerra come un’avventura necessaria a cui l’uomo deve sottoporsi per mettere alla prova le proprie forze morali, un sacrificio individuale e collettivo che favorisca l’unità della nazione e faccia emergere i valori etici dell’umanità.

In qualche modo, pur cercando di denunciare l’inettitudine dei comandi militari o la rassegnazione della truppa che deve obbedire e combattere per una guerra che non capisce, Puccini accetta lo stereotipo dell’italiano brava gente e della riscossa che la doxa ufficiale stava inculcando negli italiani, servendosi degli intellettuali. D’altronde il controllo da parte del governo e dei comandi militari sui mezzi di comunicazione era ferreo al punto che gli italiani seppero della sconfitta di Caporetto solo nove giorni dopo.

[segue]

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