I boschi non rappresentano soltanto una componente fondamentale del paesaggio delle aree collinari e montane dell’Italia centrale. In una prospettiva di lungo periodo, che dal medioevo giunge fino alla contemporaneità, selve e foreste, intensamente frequentate e per certi aspetti anche abitate dalle popolazioni locali, si configurano come spazi di primaria importanza per gli equilibri economici delle società rurali. In altre parole, esse sono la sede di attività lavorative e processi produttivi che generano risorse indispensabili per la sussistenza della maggior parte dei nuclei familiari che vivono nelle campagne.
Se nelle fasi storiche in cui si registrano delle forti crescite demografiche ad essere intaccati per primi sono proprio pascoli e boschi, le cui estensioni sono ridotte per lasciare posto alle colture cerealicole, nello stesso tempo, questi ultimi, per il valore economico che rivestono in tutte le società preindustriali, sono anche oggetto di interventi di tutela e conservazione. Non tutte le aree boschive, infatti, sono aggredite allo stesso modo. In occasione dello sviluppo demografico successivo al secolo XI, i castagneti sono salvaguardati per il fondamentale ruolo che rivestono nei regimi alimentari delle popolazioni montane. Fino all’età contemporanea, in un mondo appenninico nel quale la fame è una costante, la quale si colloca ben oltre una chiara condizione di indigenza, presente nella realtà quotidiana e nell’immaginario di ogni individuo, i frutti del sottobosco e la farina di castagne, insieme a quella ottenuta dalle ghiande, rappresentano dei beni irrinunciabili per le popolazioni più povere, in una dimensione distante da ogni logica di mercato, che arriva ad investire anche gli spazi urbani posti a ridosso delle montagne.
È nel basso medioevo che in Italia inizia a definirsi una vera e propria civiltà del castagno. Nella Repubblica di Lucca la difesa dei boschi e in particolare dei castagneti viene intrapresa alla fine del Quattrocento con appositi provvedimenti legislativi, formalizzati nello statuto del 1539: si vieta l’uso del carbone di castagno per alimentare i forni, si proibisce il pascolo nelle selve nel periodo di maturazione delle castagne, si riconoscono dei benefici agli affittuari che investono in castagneti. Alla fine del Cinquecento, per effetto dei continui processi di diboscamento, la normativa diventa più severa.
In realtà, nel lungo periodo, gli attacchi più consistenti al manto boschivo dell’Appennino dell’Italia centrale, indipendentemente dalla necessità di incrementare la produzione di cereali per l’alimentazione, si legano ad altre esigenze particolari che maturano sempre all’esterno degli spazi rurali. Nell’età preindustriale, oltre al lavoro dell’uomo e a quello degli animali, le principali forme di energia presenti nei processi produttivi sono quelle riconducibili al vento, all’acqua e alla combustione del legname. Quest’ultimo si configura anche come una delle principali materie prime utilizzate in tutti i sistemi economici. Accanto alle necessità del riscaldamento e all’uso del legname in determinate botteghe (fabbri e falegnami), è dal settore delle costruzioni edilizie, legate allo sviluppo urbano, che provengono le maggiori richieste. Enormi quantitativi servono anche per alimentare gli arsenali marittimi e le manifatture siderurgiche. I principali enti che gestiscono le foreste del Casentino in età moderna, cioè l’Opera del Duomo di Firenze e l’Abbazia di Camaldoli, sono chiamati a rifornire di legname la città di Firenze e gli arsenali di Pisa e Livorno. I tronchi, preparati all’interno delle stesse selve, dove funzionano numerose seghe idrauliche, vengono fatti fluitare sull’Arno. Allo stesso modo, anche il legname che sostiene l’espansione e la crescita di Roma in età moderna, proveniente dalla Massa Trabaria, utilizza come mezzo di trasporto il Tevere.
Il legame tra boschi e siderurgia è particolarmente forte nell’Appennino toscano. Nei territori di questa regione, nel corso del XIII secolo, gli impianti per la lavorazione del ferro che proviene dall’isola d’Elba tendono a spostarsi dalla costa in direzione delle montagne dove, accanto ad una consolidata tradizione siderurgica, non solo ci sono le selve che riforniscono di combustibile gli opifici, ma anche quei corsi d’acqua necessari per azionare le macchine. Si tratta di un’attività protoindustriale che convive con la coltura del castagno e l’allevamento ovino e con tutti gli altri mestieri tradizionali legati allo sfruttamento del bosco, compresi quelli del taglialegna e del carbonaio. Le riforme leopoldine degli anni Settanta del Settecento rompono questo equilibrio in gran parte basato su proprietà collettive e usi civici; la stessa Magona del ferro granducale è costretta ad acquistare il carbone direttamente dalle famiglie che rilevano i beni comuni.
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