“L’eterno ed alterno mare”. L’Adriatico negli scritti di Adolfo De Carolis

Adolfo De Carolis pittore, xilografo (compone le incisioni per Giovanni Pascoli: Myricae, I Canti di Castelvecchio, Poemi Conviviali; e per Gabriele d’Annunzio: La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, Alcione, Notturno). È stato anche fotografo, critico d’arte, narratore; insomma, una delle personalità più complesse della cultura italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

Già nel 1975 Alvaro Valentini suggeriva che

proprio su questa strada, un «più vero» De Carolis ci potrà essere restituito se, accanto alle testimonianze pittoriche, esamineremo a fondo le sue testimonianze letterarie finora guardate solo con la curiosità che si suol dedicare a quanto di non professionale ci ha lasciato un artista.

Dopo aver collaborato assiduamente, incidendo i fregi delle copertine delle sue opere, con d’Annunzio che nel 1901 si era trasferito nella Villa della Capponcina, ed aver frequentato l’ambiente fiorentino delle riviste in cui operano Angelo Conti, Giovanni Papini, Filippo Tommaso Marinetti, Giuseppe Antonio Borgese, Giuseppe Prezzolini, nel 1904 torna periodicamente nel Piceno per completare a San Benedetto del Tronto la decorazione a fresco della villa del conte Ignazio Brancadoro, già iniziata nel 1897. Il proprietario gli regala «originali e bellissime fotografie», materiale iconografico sugli usi e costumi dei marinai che De Carolis utilizzerà per delle conferenze sul Mare Piceno tenute nel gennaio del 1906 a Firenze e in marzo ad Ancona. La visione del paesaggio marino, animato da barche, vele, pescatori a lavoro, donne in attesa, che aveva accompagnato la sua giovinezza, viene cristallizzata in sequenze di foto scattate dall’artista che costituiranno il patrimonio ispiratore dei testi narrativi.

Formatosi nel contesto socioculturale tra fine Ottocento e primi anni del Novecento, in cui convivono quelle che Pierre Bourdieu chiama ‘opposizioni costitutive’, verismo/simbolismo, positivismo/idealismo, classicismo/sperimentalismo, De Carolis realizza una sinergia degli strumenti espressivi, tra icona e parola, con una procedura che parte dalla documentazione della realtà (la fotografia) come suggestione tematica di un modello da formalizzare e allegorizzare (il dipinto o l’incisione) per giungere alla carica simbolica del linguaggio letterario nelle prose ‘equoree’. Emblematica di questa attitudine è l’edizione di Vele e barche dipinte a San Benedetto del Tronto in «Rivista Marchigiana Illustrata», Roma, a. I, fasc. 4, aprile 1906, la cui testata riproduce la xilografia Il varo, probabilmente tratta da una foto, un momento del duro lavoro dei marinai, paragonati, per forza e audacia, a quelli omerici, che così viene descritto:

Sempre nella bella stagione i pescatori varano le nere barche prima dei chiarori antelucani e anche nella piena notte sorrisa dalle amiche stelle, seguendo l’antico uso, come i buoni marinai omerici, che sempre partono di notte per aver propizi i venti di terra.

Nel gennaio 1903 De Carolis pubblica su «Leonardo», rivista per la quale aveva composto la xilografia della testata Nel cammino della giovinezza, un testo scandito in sette paragrafi in cui lo scrittore ripercorre sul filo della memoria alcuni suoi viaggi tra Umbria, Marche e Lazio. Il quarto capitolo, Dal mare adriano, pur nella sua brevità, contiene già tutti i temi e gli stilemi che caratterizzano gli scritti dedicati al Mare Piceno. Lo scrittore instaura un rapporto euforico con il paesaggio la cui tonalità idillica è dilatata dal climax narrativo, inserito nel cronotopo stagionale e diurno, e rafforzata dalla molteplicità percettivo-sensoriale (vista, udito, olfatto):

In quel lembo di lito adriano così dolce nella primavera, pieno di delizia nel maggio per gli aranceti in fiore, ricco di lauri, ardente nell’estate e così ricco di belle vele accese che alla prima luce sotto la stella d’amore salpano da S. Benedetto; dove il meriggio crea sulle acque un bagliore meraviglioso e la calura fa vaporar le arene cocenti, dove le fanciulle dalle vesti succinte e palpitanti riempiono la riva di un batter d’ali, e al tramonto si spande una luce di prodigio sulle vele, sul cielo e sulle acque, e la grande sinfonia equorea riempie tutta la costa dalla foce del Tronto a quella del Tesino; dalla valle del fiume che scopre la montagna dei Fiori alla foce del torrente, dove tra dolci colline verdi appare la visione delle Sibille, in quel piccolo lembo una gioia foriera, che io sentii propizia ad una rivelazione, mi ritenne a lungo, toccando il sole il segno del Leone (mie sottolineature).

In questo spazio, marcato, sul piano patemico, da una sorta di panismo erotico («Il gran mare splendente mi attrasse e mi prese come un’amante voluttuosa […] giacqui sulle calde arene come su un letto di piacere») s’innesta una sequenza paratattica in cui l’io narrante esprime attraverso i verbi tutta la sua dionisiaca carica vitalistica («Gioii e obliai, giacqui… seguii… corsi… mi bagnai…») fin quando la percezione, per via allegorica, non acquisti una forma gnoseologica («Conobbi la gioia di vivere, la libertà sconfinata senza gioghi di false moralità, l’impeto irresistibile verso il moto, l’ebbrezza, il delirio in accordo con la gioia del mare»).

Figlio del post-positivismo, suggestionato dalla Nascita della tragedia di Nietzsche (1872), in cui l’armonia della «misteriosa unità originaria» nella cultura greca è interpretata nella convivenza degli opposti dionisiaco/apollineo, e attratto dalle dottrine misteriosofiche delineate dal volume di Edouard Schuré su I grandi iniziati (1889), De Carolis, negli scritti sul Mare Piceno, adotta sempre un processo di trasfigurazione e di astrazione, che parte dal reale e perviene al fantastico, attraverso la dinamica ermeneutica del soggetto.

È consapevole della sua attitudine, che lo avvicina alla poetica simbolica dell’amico Pascoli, quando, in una lettera alla moglie del 10 gennaio 1898 scrive:

Non so quale valore abbiano queste cose della natura, ma spesso mi appaiono con un significato profondo sotto veste di simboli […].

Io non vedevo più la cosa reale ma qualche visione che stava tra me e la terra, fra la mia anima e la cosa.

E le vele che ritmano nel tempo e nello spazio il duro lavoro della gente di mare, immagini di un mondo primitivo ed innocente che rischia di scomparire sotto i colpi della modernità tecnologica favoriscono l’accesso ad una realtà altra, sollecitata dall’immaginario soggettivo; nel 1912 proprio dai cantieri navali di San Benedetto del Tronto sarà varato il ‘San Marco’, il primo motopeschereccio che avvierà un cambio radicale del sistema di pesca e delle tecniche di navigazione.

Scrive De Carolis:

per tutta la durata del giorno le vele m’apparivano come creature di un altro mondo, inaccessibili, aeree, sempre varie come il mare che le cullava; come lievi ombre, come sciami o come nubi dilettose; a volte illuminate dal sole, splendenti, mutevoli, variopinte come le ali delle farfalle, tese innamoratamente verso le isole dei sogni

[segue]

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