L’economia contadina a Rocca Monte Varmine tra Sette e Ottocento

L’unità di misura della realtà mezzadrile è la struttura poderale, che negli ultimi decenni è stata studiata per il suo orientamento produttivo funzionale alla domanda cittadina, per l’uso razionale delle potenzialità delle risorse naturali, per la capacità di «massimizzare i risultati economici grazie all’applicazione intensiva delle forze di lavoro». La famiglia coloni, dunque, che abita nel podere e coniuga i fattori economici con quelli della vita sociale.

In un precedente articolo si è studiato il processo di formazione del patrimonio fondiario dell’Ospedale di Santa Maria della Carità di Fermo e le fasi dell’appoderamento; si è cercato di interpretare le strategie dell’amministrazione, oscillante tra la necessità di rendere «produttiva» l’azienda e le ragioni del suo essere ente caritativo, che ne limita le scelte puramente economiche. In un’area dove la mezzadria non riuscirà mai a dispiegarsi nella sua pienezza; la classica ripartizione a metà del cereale principale, ad esempio, non troverà piena applicazione nel «patto a laboreccio» in uso in queste terre, malgrado i continui tentativi della congregazione di aumentare la propria porzione.

Nelle pagine che seguono si cercherà di penetrare meglio il microcosmo di Rocca Monte Varmine nel suo «incessante via vai di uomini, carri ed attrezzi tra il podere e la casa padronale», per capire come i rapporti di produzione si intreccino con i legami sociali, che intervengono a correggere e ad «aggiustare» le valutazioni economiche.

Il 18 ottobre di ogni anno, in occasione della fiera di S. Luca, i «signori capi» si recano alla Rocca per controllare le colonìe di Monte Varmine; durante la «visita» del 1760 vengono sollevati «dei grandi ricorsi contro Domenico di Settimio, Domenico Gallieni e Francesco Cristianaccio, per li danni che apportano a vicini e per la pessima coltura dei terreni». Soltanto nel marzo dell’anno successivo, però, la Congregazione ordina di licenziare sia Gallieni che Settimi, sostituendo il primo con Tomasso Piermarini da Carassai ed il secondo con Giuseppe d’Angelo Vagnoni dalla Rocca, avendo vinto il «ballottaggio» con l’altro candidato, Pasquale Salladini da Monte Rinaldo. A Cristianaccio viene invece concesso un altro anno, per verificare se smetterà di «andar vagando» per accudire il podere come si conviene, da buon lavoratore: la decisione è certamente favorita dalla promessa di Francesco e del fratello Giovanni di «dividere il grano delle piane al quinto e di piantare in ogn’anno sei alberi da frutto […] a loro spese» nei siti indicati dal castellano. Mentre però i Piermarini ed i Vagnoni rimangono a lungo coloni di Santa Maria della Carità, i Cristianaccio saranno licenziati nel 1764, perché la morte di Giovanni non consente loro di «accudire al tutto»; un altro membro della famiglia, un certo Arcangelo di Francesco (forse il figlio), ricompare otto anni dopo nella documentazione contabile dell’ospedale come lavoratore del podere in contrada Torricella, dove rimarrà fino ai primi anni del XIX secolo.

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