La maggior parte della produzione letteraria di Stendhal, fatta eccezione per i suoi romanzi, si colloca, sul piano del canone, in uno spazio interstiziale dove convivono vari generi, quello diaristico in cui la scrittura presenta una diacronia non sempre corrispondente al succedersi degli eventi nel processo esistenziale, quello autobiografico, basato su una memoria ex post ma in cui il patto veritativo con il lettore è costantemente tradito, quello odeporico dove il viaggio è insieme reale ed immaginario, occasione narrativa ma anche pretesto per una ricerca profonda del sé, l’altro, l’ulteriore rispetto all’io narrante.
Allora il lettore, spaesato tra anacronismi, dislocazioni, alterazioni identitarie, fa suo il suggerimento di Raffaele La Capria che, in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 9 febbraio 2009, scrive: «è inutile cercare di metter ordine e creare collegamenti tra un anno e l’altro, tra un nome e un altro, è meglio abbandonarsi al piacere della lettura, di incontrare osservazioni di strepitosa e profondamente lieve intelligenza, caratteri e persone presentate con sorprendente e ironico acume psicologico».
Ma il piacere della lettura non è altro che la conseguenza, a livello di ricezione, del piacere della scrittura letteraria attraverso la quale Henri Beyle si trasforma in Stendhal, il “je” narrante muta in un “moi” narrato e interiorizzato, realizzando quel progetto ottativo di mascheramento di cui parla Starobinski in Stendhal pseudonimo ne L’occhio vivente.
Di questa progettualità del desiderio proiettata nella scrittura v’è traccia nel Journal de Stendhal, qualche capitolo dopo quelli dedicati al viaggio nelle Marche, nell’ottobre 1811: «A mesure que mon voyage devient bon, mon journal devient mauvais. Souvent, pour moi, décrire le bonheur, c’est l’affaiblir. C’est une plante trop délicate qu’il ne faut pas toucher» [Man mano che il mio viaggio diventa gradevole, il mio diario peggiora. Spesso, per me, descrivere la felicità, equivale ad affievolirla. È una pianta troppo delicata che non bisogna toccare], quasi che la felicità raggiunta non sia che una banale e deludente trasposizione dall’immaginario al reale.
In qualità di Ispettore dell’Amministrazione della Corona e dei Magazzini, funzionario dunque di Napoleone imperatore, Stendhal giunge ad Ancona il 17 ottobre 1811. È per lui l’occasione per rivedere Livia Bialowiejski, vedova di un colonnello polacco dell’Armée, conosciuta nel 1809. Ma l’incontro è deludente: «Livia s’ennuie dans sa petite ville d’Ancône où elle voit peu de monde encore. L’ennui la rend apathique» [Livia s’annoia in questa piccola città di Ancona dove incontra ancora poche persone. La noia la rende apatica].
Fedele al modello del Journal come registrazione diacronica delle proprie esperienze autobiografiche, Stendhal, nel suo taccuino di viaggio, trascrive in parole le prime immagini del paesaggio (un’attitudine costante nella scrittura di Henri Beyle) e traccia addirittura uno schizzo a penna del porto dorico, con l’indicazione dei lavori di ampliamento della barriera portuale al di là dell’Arco di Traiano, e dei siti monumentali circostanti.
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