Le epidemie dei secoli XV-XVIII nelle fonti archivistiche ascolane

Le principali epidemie, di solito pestilenze, notoriamente ricorrenti in ogni secolo in Italia ed Europa dal ’300 al ’700, trovano riscontro nella documentazione archivistica ascolana, da cui emergono un contagio diffuso in città nella seconda metà del XV secolo, due ondate in ciascuno dei secoli XVI e XVII, un’altra all’inizio del XVIII secolo, mentre per il XIV secolo si hanno notizie soltanto dalle Cronache.

I provvedimenti emanati dalle pubbliche autorità del Comune di Ascoli, cui spettava il compito in ogni epoca di gestire le situazioni di emergenza causate dall’epidemia, attestano con viva immediatezza le misure di prevenzione e contenimento del contagio adottate, le scelte dei governanti, i comportamenti dei cittadini e gli effetti prodotti, permettendo di conoscere interessanti aspetti delle situazioni socio-politiche determinatesi in occasione di crisi sanitarie del passato, che possono offrire significativi elementi di confronto con il presente. Le testimonianze relative all’epidemia di peste manifestata ad Ascoli nel 1484, di cui possiamo seguire gli sviluppi per tutto il protrarsi fino al 1486, rivelano già all’epoca la messa in pratica delle principali precauzioni e procedure solitamente ritenute efficaci, anche fino ai giorni nostri, per evitare la diffusione: limitazione dei movimenti delle persone, con divieti di accesso e di uscita dalla città, creazione di apposite magistrature sanitarie, divieto di assembramenti, specifici luoghi di degenza e di sepoltura, quarantena, isolamento, cancellazione di manifestazioni pubbliche. Il 24 febbraio 1484 gli anziani segnalavano l’allarme per una minaccia di peste in alcuni luoghi della provincia, e la necessità di provvedere «pro conservatione sanitatis civitatis», ricevendo il giorno seguente dal Consiglio di Credenza l’incarico di designare i cittadini per la guardia «super facto pestis»; tuttavia soltanto dopo più di un anno, prendendo atto che «malus aer pestifer» si era diffuso in molti luoghi, le autorità intrapresero azioni concrete, disponendo il 12 luglio 1485 la guardia delle porte affidata a cinque uomini retribuiti mensilmente, e istituendo quattro «conservatores sanitatis et superstites boni aeris», specificamente responsabili della tutela della salute pubblica. È significativo che nel 1484, pur ancora in presenza di vaghe avvisaglie di pericolo, il Consiglio pubblico e generale avesse preso la prudente decisione di non far svolgere la fiera di agosto, certamente per il rischio dell’afflusso di forestieri, mantenendo tuttavia la cerimonia per le offerte di cera in onore del patrono; molto esplicita fu invece la motivazione che fosse evitata «cohadunatio personarum» da cui il Consiglio di Credenza del 23 marzo 1486 fu indotto a sospendere la pur sentita e imponente «pompa» della processione per la festa dell’Annunziata «propter contagionem que est in civitate», evidenziando un atteggiamento di prudenza e razionale consapevolezza dei rischi certamente illuminato per i tempi, rispetto alla tendenza diffusa in altri luoghi e anche nei secoli successivi – come nella famosa pestilenza di Milano nel ’600 da parte del cardinale Borromeo – a fare affidamento alla devozione religiosa, attraverso preghiere collettive e processioni, con l’effetto disastroso di alimentare il contagio invece di arginarlo. Tra la fine del 1485 e l’inizio del 1486 ad Ascoli il morbo aveva ripreso forza e diffusione, causando già alcune vittime in città, per cui lo stesso Consiglio il 4 dicembre 1485 tentava di porre un drastico rimedio disponendo «gubernantibus pestiferos et pestiferis» l’isolamento fuori le mura, destinandoli «pro mansione et habitatione» nel convento di Santa Maria in Solestà, ivi compresa la sepoltura, cui i vicini residenti opposero invano resistenza; il 6 gennaio 1486 gli Anziani inasprivano le misure con l’obbligo per coloro le cui case fossero toccate dalla peste di allontanarsi dalla città, mentre l’1 aprile su intervento dei «cives boni aeris» veniva emanato un severo bando che intimava «reclaudi in domibus» o di allontanarsi immediatamente «in tempus quo ardet candela accensa» dalla città a qualunque persona «cuiusque status et condicionis, que sit a XL diebus circa conversata cum personis pestiferis», a significativa testimonianza dell’ormai acquisita consapevolezza del nesso tra contatto diretto tra le persone e diffusione del male, e della necessità di una profilassi precauzionale, per cui l’unico mezzo di contrasto consisteva nel distanziamento sociale. Nel settembre del 1485 gli Anziani erano ricorsi alla modalità della quarantena nei confronti dei frati di San Domenico, nel cui convento si era registrata «aliqua contagio pestis», applicandola con rigore, dato che pur avendo già trascorso il 21 settembre «ultra 40 dies inclusi» veniva loro imposta «patientiam per totum mensem» prima di potere circolare in città. Peculiarità significative e caratterizzanti dell’epidemia furono le reazioni a livello sociale e istituzionale: il 6 gennaio 1486 gli anziani constatavano il fenomeno dello svuotamento della città «attento discessu civium a civitate», accentuatosi il 27 marzo, quando il Consiglio di Credenza affrontava il problema del governo comunale «cum cives fere omnes absint propter pestis contagionem», e il 31 marzo la difficoltà di disporre degli stessi medici, dato che «Nicola Manupellus fisicus» appena eletto rifiutava «servire pesti stans clausus». Già da alcuni mesi infatti si erano evidenziati gli effetti del contagio nella struttura dell’amministrazione comunale, con provvedimenti di emergenza da parte del Consiglio Pubblico e Generale, che il 2 gennaio 1486 aveva costituito un nuovo organo di 48 consiglieri, cui conferiva la sua autorità, disponendo invece che gli anziani risiedessero ad Appignano, forse immune dal contagio, tenuti però a partecipare alle riunioni in città se convocati.

[segue]

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