La “Verità” di mons. Carlo Castelli sul caso Murri

I biografi di Romolo Murri hanno esaminato con attenzione la lettera pastorale di mons. Carlo Castelli, arcivescovo di Fermo, intitolata La Verità sul caso del sac. Romolo Murri, pubblicata nel 1910, un anno dopo la scomunica del fondatore della Democrazia cristiana. Si tratta di un documento che merita di essere esaminato ancora una volta da una prospettiva non marginale per rispondere ad alcune domande non facilmente eludibili: quale tipo di prassi inquisitoriale fu seguito dall’autorità ecclesiastica, quale relazione venne a stabilirsi durante il procedimento canonico tra i vertici gerarchici e lo stesso Murri, in particolare quale fu l’atteggiamento di Roma e del presule fermano di fronte alle argomentazioni difensive costantemente presentate dalla parte inquisita? La Lettera pastorale, esaminata da questo punto di vista, senza entrare nei dettagli di una storia ben nota nelle sue linee essenziali, contribuisce a chiarire il dramma vissuto da Romolo Murri nel momento più importante della sua vicenda umana e sacerdotale, in un mondo ecclesiastico nel quale il controllo della dottrina e della prassi politico-religiosa viene esercitato da un’autorità che si considera indiscutibilmente al di sopra delle coscienze individuali, alle quali richiede un’obbedienza perinde ac cadaver. Il percorso disciplinare che conduce Murri alla condanna, è stato detto, è segnato dallo scontro tra due mentalità irriducibilmente diverse, ma prima ancora è reso possibile da una forma mentis ecclesiastica, da una “psicologia dell’autorità” che stabilisce una relazione gerarchica nella quale la logica del potere prevale su ogni altra ragione. L’azione repressiva nei confronti del Modernismo, nella quale molti contemporanei inscrissero l’intera vicenda murriana, era espressione di una mentalità animata da quella ecclesiologia romana che nell’epoca post-tridentina aveva consolidato e giustificato una prassi fondata sul controllo delle coscienze e la repressione della dissidenza. Negli anni di Pio X, Instaurare omnia in Christo significa rafforzare l’egemonia “romana” anche attraverso decisioni e provvedimenti che nell’età di Leone XIII sarebbero apparsi plausibili solo dopo una prudente riflessione.

Mons. Castelli, appena arrivato a Fermo nel dicembre 1906, si trovò di fronte ad un problema più grande di lui. Nella diocesi di origine Murri era da tempo punto di riferimento di una parte consistente del clero, soprattutto giovane; la Democrazia Cristiana e le sue idee godevano di un consenso che si sarebbe espresso nel 1909 con la sua elezione al Parlamento (unico eletto in Italia tra i candidati della Lega democratica). La sospensione a divinis e la scomunica di Murri furono accolte con profonda inquietudine e un certo dissenso. Mons. Castelli avvertì la necessità, probabilmente sollecitato da Roma, di far conoscere la sua “Verità” attraverso un testo che si presenta come una lettera pastorale, ma che in realtà non è altro che una raccolta di lettere e documenti disposti cronologicamente e accompagnati dai commenti dell’autore. Nella redazione del testo mons. Castelli fu coadiuvato dal padre Enrico Rosa, come è noto da tempo.

Nella Premessa l’arcivescovo spiega le ragioni che lo inducono ad intervenire pubblicamente dopo l’avvenuta scomunica di Murri: la pubblicazione della lettera “confidenziale” inviata al prelato fermano il 24 luglio 1907, ma datata 29 giugno 1907 (un documento assai complesso sul quale ritorneremo dettagliatamente), «conteneva accuse e gettava una luce assai fosca, per non dire il discredito, non solo sulla mia povera persona, ma cosa sovra ogni altra deplorevole e dolorosa, su quella istessa del Sommo Pontefice». Murri fece circolare il testo in un ambito ristretto. Dopo la scomunica fu quasi interamente pubblicato su L’azione democratica, il giornale della Lega Democratica Nazionale (4 e 11 aprile 1909). Ora che la vicenda sembra conclusa con l’esclusione del sacerdote ribelle dalla comunione ecclesiale, mons. Castelli ritiene giunto il momento di parlare pubblicamente. La ricostruzione dell’intera controversia sarà di monito al clero diocesano:

Né io altro desiderio cerco se non che risplenda la verità, e che specialmente voi tutti, Venerabili Fratelli, vedendo e, lasciatemi dire, quasi toccando con mano ciò che il vostro vescovo ha fatto e sofferto pel ravvedimento del suo sventurato sacerdote, vi persuadiate sempre più dell’amore che i Superiori, che i Vescovi, per le viscere paterne che G.C. loro infonde nell’atto di elevarli alla dignità episcopale, portano ai loro sacerdoti, e perciò vi sentiate sempre meglio incitati a ricambiarli del vostro sincero affetto, del vostro rispetto, della vostra ubbidienza. Le prime parole dell’arcivescovo sono espressive della logica seguita dall’articolazione argomentativa dell’intera lettera pastorale: mons. Castelli, una volta concluso il procedimento contro Murri, intende dispensare la “Verità” ufficiale stabilita dalla gerarchia e, nello stesso tempo, diffondere l’immagine di un’autorità paternalisticamente disposta fino all’ultimo ad accogliere il pentimento dell’inquisito, con la pazienza che distingue il buon pastore, padre dei suoi sacerdoti. Paternalismo e pratica inquisitoriale, come vedremo, animano l’intera vicenda murriana, che da questo punto di vista non manca di suscitare profonde perplessità: reprimere benevolmente è una forma dell’intolleranza tipica della pratica inquisitoriale dell’età moderna. Negli ordinamenti totalizzanti all’ortodossia si affianca l’obbedienza, vale a dire la fiducia totale in chi comanda. Di conseguenza, spiega Italo Mereu, «devianza è l’allontanamento dall’insegnamento retto e giusto (cioè quello ufficiale); è il pensiero non canonizzato, l’autonomia intellettuale, il non essere integrato. Alla devianza si risponde ideologicamente solo con petizioni di principio, ribadendo, cioè in primis la validità assoluta dei valori che si pongono in discussione». La benevolenza, in questo contesto, è il volto suadente del potere religioso, che non ammette dialogo e attende sottomissione senza condizioni. La “Verità” di mons. Castelli è dunque esposta seguendo con rigore estremo una prassi inquisitoriale collaudata da secoli, le cui modalità sono introiettate nei membri della gerarchia ecclesiastica fino ad animare una spiritualità del ministero episcopale che anche il presule fermano non ha difficoltà a condividere.

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