Le Marche sono una regione al plurale non solo nel toponimo ma anche nella grande varietà fonetica e lessicale dei dialetti marchigiani che è la matrice della foresta delle produzioni poetiche in dialetto, spesso edite a proprie spese o finanziate da enti locali attenti ai destini della microstoria del proprio paese. La frammentazione linguistica determina una riduzione spaziale della fruizione testuale (spesso il dialetto di un territorio è incomprensibile agli abitanti del circondario limitrofo) e una stratificazione magmatica del pubblico ristretto e disgregato.
Non intendo ovviamente misconoscere l’importanza sociale e culturale, in senso antropologico, del dialetto ma, con alcune eccezioni, definirne i limiti estetici.
So bene, come ha scritto Temistocle Franceschi, che nella poesia dialettale «si tratta della storia del popolo: quella vera, quella ignorata dai manuali scolastici, quella che importa».
E so anche che chi conosce ed usa il dialetto realizza quel principio di libertà comunicativa garantita dal plurilinguismo che permette al parlante di muoversi nella dinamica sociale senza pericoli di deprivazione verbale o di sradicamento dalla collettività.
Chi si serve del dialetto come strumento di comunicazione, in alternanza con l’italiano, scrive ancora Franceschi, «nel suo ambiente ne ricava un forte senso di aggregazione, di appartenenza a una comunità, d’immersione in una storia».
Ed è indubbio che anche attraverso la poesia dialettale, intesa soprattutto come documento, sia possibile recuperare tutto quel patrimonio di idee, gesti, comportamenti, credenze, personaggi, che sono alla base delle nostre tradizioni popolari e da cui bisogna partire per conoscere in profondità il diretto passato di individui facenti parte di un gruppo sociale.
La poesia dialettale marchigiana ha avuto il suo momento di splendore proprio nei primi anni del secolo, quando lo schema di classificazione sociale era abbastanza rigido e non presentava la complessità e la mobilità della società “liquida” di oggi. E al successo di certi poeti non è stata forse estranea una spinta collettiva all’aggregazione, al riconoscimento d’identità, alla ricerca di una rappresentanza individualizzata della classe su cui scaricare desideri d’impronta carismatica. La differenza sociologica fra la cultura d’élite e quella popolare trovava la sua caratterizzazione anche in riferimento al rapporto poeta-pubblico.
Se gli autori in lingua italiana affidavano qualche probabilità di successo a testi scritti, letti e pubblicati per un pubblico anonimo, e di alta scolarizzazione, i poeti dialettali recuperavano l’antica tradizione della poesia orale, tornavano ad essere giullari e cantori per un pubblico conosciuto, quello dei compaesani che parlavano lo stesso dialetto.
Nel corso degli anni ho dedicato alcuni miei studi ai poeti dialettali delle Marche, in una sorta di viaggio testuale dal Metauro al Tronto, ma finora non mi ero mai imbattuto nel poeta cuprense Ernesto Ciucci, la cui produzione di versi è stata raccolta dai parenti e dagli amici nel volume Coje li frutte e lascia sta le fronne.
Le cinque parti in cui è suddivisa l’opera (parte prima: Lu paese mi’; parte seconda: Li frechì; parte terza: Le fandelle; parte quarta: Le persó; parte quinta: Lu castelle de Marà e la morte de Cazzapà ) costituiscono, sul piano critico, le tappe di un percorso poetico che parte da una sorta di visione idillica del microcosmo cuprense, descritto attraverso il ricorso a stereotipi di temi e immagini ricchi di generico sentimentalismo, per poi giungere, tramite la concretizzazione dei personaggi definiti già, come la tradizione popolare prevede, dai loro soprannomi che ne evidenziano tic, attitudini, ossessioni, alla rievocazione storica della quinta parte, dove nel «poemetto in versi martelliani che può rientrare nel campo della poesia narrativa» Ciucci fonde l’epopea collettiva de Lu castelle de Marà con la vicenda umana di Vincenzo Rettini, detto Cazzapà, il guardiano della Rocca del Castello che si aggirava, in compagnia di un cane, una capretta e un pavone, a rimirare in solitudine le rovine del Castello.