La statua loricata di Fossombrone

Nonostante sia priva della testa-ritratto e di altre parti rilevanti, non c’è dubbio che la statua marmorea con lorica esposta nel Museo Archeologico «A. Vernarecci» di Fossombrone si distingua, nel più ampio contesto delle sculture romane di età imperiale rinvenute in territorio marchigiano, per l’alta qualità formale e per un’obiettiva cura nella resa dei dettagli. Aveva ben compreso il pregio della scultura Enzo Catani, che ne pubblicava nel 1981 una prima, ampia edizione, esaminandone le singole parti e ripercorrendone le vicende successive all’età romana; vicende ricordate anche in più recenti descrizioni della statua, che non mancano né in volumi dedicati alle importanti scoperte nel Parco Archeologico di Forum Sempronii, né in pubblicazioni più generali sull’archeologia e sulle antichità delle Marche.

Proveniente appunto dal sito dell’antico municipio di Forum Sempronii (località San Martino del Piano), la statua fu reimpiegata nelle mura della rocca medievale di Fossombrone e da lì fu recuperata e destinata, nell’anno 1506, ad essere restaurata per accogliere il ritratto del duca Guidubaldo I, figlio di Federico da Montefeltro; un intervento che non fu mai concluso, così come non ebbe seguito la proposta, deliberata nel 1611 dal Consiglio di Fossombrone, di integrare la scultura con una «testa antica» rinvenuta in quegli anni. La statua rimase quindi esposta senza aggiunte presso il Palazzo Pubblico cittadino, dove nel 1721 venne disegnata per volontà della casata dei Passionei, fino ad essere collocata nel 1895 nella “Sala del Teatro” del Palazzo Ducale, allestita nello stato attuale nel 1997 grazie alla curatela di Giancarlo Gori. Pochi anni fa, nel 2002, la Soprintendenza Archeologica delle Marche ha opportunamente deciso di finanziarne il restauro.

Realizzata in marmo di Luni, questa scultura onoraria misura m 1.50 di altezza e, pur dipendendo da modelli statuari diffusi in epoca flavia, è stata giustamente datata al II secolo d.C. e, più precisamente, nei primi decenni del secolo (comunque non oltre il regno di Adriano, 117-138 d.C.). Scolpita su commissione verosimilmente pubblica da un’officina urbana (nel senso della città di Roma), rappresentava in dimensioni maggiori del naturale un autorevolissimo personaggio del quale, per la perdita del ritratto, si ignora con certezza l’identità. Concordemente riconosciuto in tempi recenti come imperatore, ritengo invece che l’esame di alcune delle decorazioni presenti nella statua possa indirizzare verso una diversa identificazione. Procediamo tuttavia con ordine, descrivendo i principali motivi decorativi visibili, preziosi come vedremo per definire l’identità del personaggio onorato, significativamente rappresentato in abito e sandali militari (caligae). Insieme alla corta tunica, questi indossa una lorica con la rappresentazione simmetrica di due Vittorie alate che, affrontate in volo, stanno bruciando incenso su un bruciaprofumi (thymiaterion) acceso scolpito al centro. La base della scena è costituita da una palmetta centrale capovolta dalla quale si dipartono sottili ornati vegetali che si sviluppano in corrispondenza dei lati dell’addome. Sotto il profilo curvilineo del corsetto è presente un secondo motivo inciso a girali e palmette, delimitato in basso da cerniere che sostengono tre ordini di lunghi lambrecchini pendenti (pteryges). Si tratta in totale di trentotto lambrecchini con una decorazione figurata particolarmente accurata, realizzata con soggetti che, almeno in alcuni casi, sembrano comporre un sintetico ed allusivo programma celebrativo, rinviando ad un contesto geografico ben preciso; un contesto nel quale, evidentemente, il personaggio onorato doveva aver svolto con successo le proprie funzioni militari. Infatti, insieme a motivi assai ricorrenti nelle statue loricate di età imperiale, e dal valore simbolico generico quali teste di Gorgone (gorgoneia), protomi di ariete, grifoni, aquile, elmi, scudi, motivi a palmetta e/o fitomorfi, alcuni soggetti sembrano far riferimento con pochi dubbi all’Egitto. Il primo di questi è una testa di Giove Ammone che, significativamente inserita al centro dell’intero sistema di pendagli, è rappresentato al fianco di un gorgoneion nella linguetta mediana del II ordine con i consueti caratteri iconografici: corna d’ariete ritorte all’altezza delle tempie, barba, lunghi baffi. Come noto, è appunto il deserto occidentale egiziano la patria del dio cornigero, titolare del celebre oracolo dell’oasi di Siwa che, nel 332-331 a.C., fu visitato da Alessandro Magno, riconosciuto nell’occasione come figlio dal dio stesso. Un motivo, la testa di Giove Ammone, che in Occidente ha avuto grande fortuna nell’immaginario figurativo romano soprattutto dopo la vittoria di Azio (31 a.C.) e la conquista dell’Egitto, e che ha determinato l’inclusione del loricato di Fossombrone nella raccolta di M.C. Budischovsky sulle testimonianze dei culti egiziani nell’area adriatica.

C’è una seconda divinità barbata e cornigera ritratta nei lambrecchini del loricato da Forum Sempronii. Un dio che, come Giove Ammone, compare anche in questo caso una sola volta: risulta infatti scolpito solo nel terzo pendaglio da sinistra del I ordine. Credo che l’identificazione proposta da E. Catani sia condivisibile: si tratta di una vivida immagine di Pan, raffigurato con piccole corna divergenti verso l’alto, lunghi baffi che scendono agli angoli della bocca semiaperta, barba corta e appuntita. Pan è una divinità che normalmente non compare nelle decorazioni dei loricati e comunque, più in generale, poco ricorrente nella produzione scultorea del periodo romano. Tuttavia, come ha da tempo mostrato A. Bernand nel saggio dall’emblematico titolo Pan du désert, questo dio ancora in età imperiale era particolarmente venerato nel deserto egiziano orientale dove, come confermano le iscrizioni, ottenne tra le altre anche la devozione di tribuni e centurioni dell’esercito romano. Basta qui citare la figura del tribuno T. Claudius Apollinaris, che in età traianea, e precisamente nel 109 d.C., viene ricordato in un’iscrizione da Panopolis (“la città di Pan”, odierna Akhmīm) come prostates del dio. Il testo greco dell’epigrafe menziona sia l’imperatore Traiano che Pan («…dio tanto grande…»), al quale viene dedicato un propileo (propylon) alla cui costruzione, secondo l’ipotesi di Bernand, potrebbe aver direttamente partecipato l’esercito romano.

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