Le vicende delle fughe dal carcere sono generalmente considerate come parte delle vicende criminali e quindi interpretate come semplice cronaca o con un alone romantico ed avventuroso soprattutto nei casi più noti, dando al tema un connotato cronachistico.
L’interesse per questo tema è stato marginale nei contributi storiografici sull’età moderna, che si sono focalizzati prevalentemente sul carcere sia nella sua accezione di luogo di pena e repressione punitiva che sugli interventi caritatevoli nei confronti dei suoi sfortunati residenti.
Questo contributo, attraverso lo studio dei procedimenti penali del tribunale episcopale di Jesi, si propone di far emergere in maniera evidente l’unicità di questo crimine che racchiude in sé un interessante insieme di correlazioni con la società dell’età moderna ed amplifica i rapporti tra il tribunale ed i soggetti con cui entra in contatto attraverso la presenza fisica degli imputati nella prigione da cui decidono di fuggire. Inoltre l’analisi della documentazione permette di evidenziare come la fuga dalla detenzione diviene il crocevia di una serie di azioni e reazioni che amplificano la possibilità di rivelare gli intrecci della società di un centro esemplarmente periferico dello Stato Pontificio in età moderna.
Dobbiamo tenere conto che in questo periodo il carcere generalmente non è un luogo di pena ma è da considerarsi come ad custodiam, quindi un luogo concepito per fare sì che gli imputati non possano sottrarsi al giudizio e dove permangono solo fino al compimento del procedimento giudiziario. Nel caso della prigione vescovile di Jesi ci troviamo di fronte ad una realtà dove si può circolare e si ricevono visite, cibo, vestiti e dove si discute e conversa. Naturalmente non si tratta di una sistemazione amena: i carcerati devono pagare la loro stessa carcerazione ed in alcuni casi vengono messi ai ceppi per evitare tentativi di fuga od aggressioni nei confronti dei carcerieri.
A questo approccio corrispondono le posizioni dei giuristi laici che, attraverso le Practicae, prendono spunto da una visione per la quale il carcere mantiene la finalità di custodia per arrivare al momento del processo o della condanna, quindi non una forma di sanzione ma mero controllo come sottolineato da Prospero Farinacci: «debet enim captus carcerari in loco in quo ultra custodiam, poenam non patiatur, quia carcer non ad poenam, sed ad custodiam inventus est». La stessa posizione è espressa sia da Giacomo Menochio che ritiene la carcerazione ad esclusivio uso di custodia sia da Giulio Claro che spiega come il carcere utilizzato come pena non sia in uso presso le corti al tempo della sua elaborazione.
Vero è che la visione dei giureconsulti includeva svariate eccezioni e pareri più articolati, che puntano ad uno sviluppo della carcerazione come pena, anche se la logica rimaneva comunque legata all’impostazione iniziale. In particolare questo atteggiamento può essere esemplificato dalla posizione sul carcere perpetuo come pena, che viene assolutamente negato come possibile forma di condanna per i laici in qualsiasi contesto.
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