L’orizzonte di riferimento delle riflessioni contenute in questo numero di MarcaMarche è la comunità. La genesi di questo concetto, il dibattito suscitato dalla sua presenza – assenza, ritorno, scomparsa, trasformazione – come anche la questione della opportunità o meno di continuare ad usare il concetto stesso di comunità, sono tutti aspetti ampiamente trattati in letteratura e la sintesi necessaria in questo numero della Rivista chiama solamente ad una loro fuggevole evocazione. Certamente ci serve richiamare la relativa ambiguità che ha sempre circondato la trattazione del tema ‘comunità’, una ambiguità che vede da un lato nella dimensione comunitaria un vincolo ascrittivo, di fissità della condizione personale e collettiva, di angustia di orizzonti e di occhiuto controllo; una condizione pre-moderna che la modernità è destinata a spazzare via, quasi come un compito storico. Ci viene in mente la polemica marxiana diretta al Daumer il quale, nel suo La religione della nuova era, aveva sovrapposto le immagini della natura e della donna a quelle dell’uomo (dell’umanità) e del maschio, affermando la necessità che il primo si “auto-alienasse” dedicandosi alla natura e il secondo alla donna, ripristinando così l’ordine delle cose. Marx è nei suoi confronti sprezzante: «Il culto della natura si riduce qui, come si vede, alle passeggiate domenicali del provinciale che esprime il suo infantile stupore sul fatto che il cuculo depone le sue uova nel nido altrui, che le lacrime hanno la virtù di conservare umida la superficie dell’occhio. Naturalmente non si fa parola della moderna scienza naturale, che in connessione con l’industria moderna rivoluziona l’intera natura e, insieme ad altre ragazzate, ha posto fine all’atteggiamento infantile dell’uomo verso la natura […] Non resta che augurarsi che la pigra economia contadina della Baviera, il terreno sul quale sono cresciuti egualmente i preti e i Daumer, sia finalmente sconvolta dalla moderna agricoltura e dalle macchine moderne».
Dall’altro lato, la società attendeva l’uomo nuovo con tutta la sua struttura delle opportunità, certamente, ma anche con la totale assenza delle reti di protezione, delle regolarità rassicuranti, degli ammortizzatori sociali ante litteram, per così dire, con la sua artificialità; dunque qua e là affiora se non lo sguardo nostalgico, certamente una grande cautela nell’entusiasmo su questo passaggio epocale, comunque ineludibile in tutti i classici del pensiero sociale dell’Ottocento e del Novecento, dall’opera fondativa di Ferdinand Tönnies ai contributi di Georg Simmel, dalla problematizzazione di Max Weber al superamento del dualismo tönnesiano di Talcott Parsons, senza dimenticare che la dicotomia solidarietà meccanica/solidarietà organica di Emile Durkheim descriveva anch’essa il (necessario) passaggio dalla tradizione alla modernità, così come anche un’altra famosa dicotomia, quella tra status e contratto di Henry Maine. Più recentemente, altri autori hanno continuato a riflettere (inevitabilmente) sul concetto di comunità, ponendolo ora in un ambito problematico più ‘possibilista’ (come in Italia ad es. Arnaldo Bagnasco), o più critico, come Zygmunt Bauman, o più articolato, come Manuel Castells, per citare tre contemporanei che riprenderemo più sotto. Che si voglia dunque porre in dubbio l’utilità di continuare ad usare questa categoria interpretativa o che ne se rinnovi la centralità, rimane il dato di fatto che di ‘comunità’ si continua a parlare: la partita della definizione di che cosa sia una comunità si gioca anche sulla definizione dei suoi confini e della natura delle sue relazioni e, dunque, su contesti spazialmente definiti ed assieme reti lunghe di connessione, appartenenze plurime. Quindi la riflessione si sposta verso l’esigenza di comprendere e spiegare il senso dell’esistenza di ‘comunità virtuali’ che siano più o meno coincidenti con un’areale spaziale definito: con l’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione, si amplia l’orizzonte comunitario proprio sino alla dimensione della virtualità – su cui tuttavia correttamente Bagnasco invita alla ‘cautela’.
La lunghissima e a tratti assai complessa tradizione sociologica di studi e riflessioni sulla dimensione comunitaria (in questa sede ovviamente irriproducibile) si è spesso soffermata sui criteri di identificazione della comunità, in particolare nel momento del suo confronto contemporaneo con la dimensione cosmopolita, globale, che sembra accentuare ancor più quella dimensione residuale di ‘comunità di sangue’ (la famiglia) che traspariva dalla sistematizzazione di Tönnies associata alla ‘comunità di luogo’, laddove «Il vicinato è il carattere generale della convivenza nel villaggio, dove la vicinanza delle abitazioni, il terreno comune o anche la semplice delimitazione dei campi danno luogo a numerosi contatti umani, alla assuefazione reciproca e ad una conoscenza intima, rendono necessari il lavoro, l’ordinamento e l’amministrazione in comune, e inducendo a implorare la grazia e i favori degli dei e degli spiriti della terra e dell’acqua, che portano benedizioni e minacciano sciagure».
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