Com’è già stato sottolineato in più di un’occasione, gli studi di archeologia medievale non occupano una posizione di rilievo nella letteratura scientifica archeologica delle Marche, specie nell’area oggetto del presente saggio.
Dopo un promettente inizio negli anni ’70 del secolo scorso, legato soprattutto agli studi di Liliana Mercando e di Gabriella Maetzke, bisognerà attendere gli anni ’90, periodo in cui Maria Cecilia Profumo, nell’ambito delle attività istituzionali dell’allora Soprintendenza Archeologica delle Marche, pubblicò alcuni resoconti su scavi e attività svolte in regione, alcune delle quali pertinenti anche alle produzioni ceramiche alto medievali e medievali. È però solo negli ultimi anni che le ricerche di settore, per il periodo di transizione dal tardo antico all’alto medioevo e per il medioevo, hanno ricevuto un nuovo impulso grazie soprattutto a progetti di ricerca strutturati, coordinati da vari atenei italiani e stranieri, nonché singoli contributi spesso legati alle attività della SABAP o di altri studiosi.
Recentemente sono stati pubblicati i risultati di indagini archeologiche condotte nell’Anconetano, nel Maceratese e nel Piceno meridionale; esse hanno prodotto e stanno producendo tuttora un incoraggiante avanzamento delle nostre conoscenze, come si è visto anche in occasione del recentissimo I Convegno di Archeologia Medievale nelle Marche, tenutosi a Macerata nel maggio del 2019.
Stanti tali premesse, appare comunque evidente che in regione gli studi sulle produzioni ceramiche da sempre sono di fatto un filone di studi ben rappresentato, anche per l’interesse che l’ambiente marchigiano ha stimolato fin dagli anni settanta dello scorso secolo.
Nel mio saggio cercherò di presentare un resoconto dello stato dell’arte in questo campo della ricerca, limitandomi alle aree centro-meridionali della regione (province di Macerata, Fermo e Ascoli Piceno), con un taglio pensato anche per un pubblico di lettori più ampio di quello costituito dai soli specialisti.
Poiché ad attirare l’attenzione sono state le produzioni di maiolica arcaica e di graffita, mi sembra opportuno, infine, proporre una breve introduzione di carattere generale all’argomento, proprio in considerazione del carattere di questa rivista.
La Maiolica Arcaica
Con il termine maiolica arcaica s’intende quella ceramica caratterizzata da smalto stannifero bianco e da una decorazione in bicromia, ottenuta utilizzando il bruno manganese e il verde ramina. Essa rappresenta la prima ceramica da mensa decorata dell’Italia centro settentrionale ove costituisce, insieme alla “graffita arcaica”, il servizio da tavola del tardo medioevo. La “maiolica arcaica” è la prima ceramica smaltata presente in Italia centro-settentrionale a partire dalla metà/seconda metà del XIII secolo e fino al XV.
In un articolo del 1971 Giuseppe Liverani suddivise le produzioni di maiolica arcaica in tre macro gruppi: Umbro-laziale (con centro ad Orvieto), Emiliano-romagnolo (con centro a Faenza) e Toscano (con centro a Siena). Tale divisione rispondeva all’esigenza di evidenziare le peculiarità regionali nella macro classe della maiolica arcaica. Negli anni successivi fiorirono molti studi sull’argomento che chiarirono, almeno in parte, non solo le caratteristiche delle produzioni locali, ma anche i cambiamenti della classe nel tempo, arrivando a dividere in fasi la produzione di maiolica arcaica.
Inizialmente importata da paesi che si affacciano sulle sponde sud-occidentali del bacino del Mediterraneo, la maiolica arcaica in seguito iniziò a essere prodotta da officine locali, con conseguente diversificazione di forme e decori. In un primo momento, bacini in maiolica arcaica furono utilizzati per decorare le facciate delle chiese, ma presto vennero immesse sul mercato anche ceramiche da mensa, quali tazze, scodelle, boccali, catini e piatti. Si tratta di prodotti caratterizzati da decorazioni, come si diceva, in bruno e verde costituite da motivi geometrici, fitomorfi o zoomorfi.
La ceramica ingobbiata graffita
Questa classe ceramica è caratterizzata da un processo tecnologico che generalmente segue le fasi di: ingobbiatura, graffitura, prima cottura, coloritura, invetriatura e seconda cottura. Dopo essere stato realizzato al tornio, il manufatto viene ricoperto da un sottile e opaco strato di argilla /caolino di colore bianco (l’ingobbio), con lo scopo di mascherare il colore del corpo ceramico.
In seguito viene praticata, mediante uno strumento a punta o a stecca, una graffiatura che, evidenziando il contrasto tra il colore più scuro del corpo ceramico e il biancastro dell’ingobbio, mette in risalto il decoro “graffito”. Infine, dopo una prima cottura, il manufatto viene eventualmente decorato con colori ricavati da ossidi metallici (maggiormente giallo-bruno ferraccia e verde ramina) e da ultimo sottoposto ad una seconda cottura dopo essere stato rivestito di vetrina piombifera che rende l’oggetto impermeabile.
In rari casi si rileva una variante nel processo di produzione: la fase della graffitura è eseguita direttamente sul corpo ceramico umido, prima dell’ingobbiatura. In questo caso, i solchi che caratterizzano il decoro appaiono meno profondi e nitidi, in quanto non viene messo in risalto il colore del biscotto sottostante.
La tecnica della ceramica graffita ha origini remote orientali; trasmessa dalla Cina alla Persia nel IX-X secolo, passò poi da qui all’area mesopotamica e siriana e infine all’impero bizantino.
Gli studi sulla ceramica ingubbiata e graffita in Italia hanno visto, nel primo trentennio del secolo scorso, una prima fase durante la quale sono state approssimativamente individuate le produzioni databili tra la fine del XV e il XVI secolo, includendovi tuttavia anche produzioni più antiche e più tarde.
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