La mole della cattedrale dell’Assunta, dalla spianata che corona il colle Sabulo (l’odierno Girfalco), alto circa m 300, domina l’abitato di Fermo, concentrato sui pendii nord-orientale e nord-occidentale. Non solo la chiesa attuale, in gran parte frutto di un rifacimento del XVIII secolo, nelle sue parti più antiche risale all’intervento duecentesco di Giorgio da Como, ma insiste su un precedente edificio paleocristiano, scavato negli anni Trenta del Novecento. L’analisi delle evidenze archeologiche consente inoltre, come si vedrà, di individuare una ulteriore fase edilizia collocabile a ridosso della ricostruzione del comacino.
«Dai frammenti marmorei scolpiti a treccia romanica, da alcune massicce basi cruciformi con peducci lobati di colonnine agli angoli, fino alle ampie basi rotonde di colonne costruite in cotto è tutto un rincorrersi di stili dall’epoca romanica a quella in cui l’opera di Giorgio da Como ebbe a trasformare radicalmente il tempio». Già il Soprintendente all’arte medioevale e moderna per le Marche e la Dalmazia Guglielmo Pacchioni, nelle varie relazioni sui lavori di scavo succeduti alla scoperta fortuita della fabbrica sottostante nel 1934, rilevava molteplici fasi architettoniche, segnalate anche da Giuseppe Breccia quando, nel 1939, pubblicava gli esiti delle indagini archeologiche.
Il ritrovamento dei resti dell’edificio paleocristiano – in realtà già noto a Michele Catalani, che ne vide il pavimento musivo nel corso della riedificazione subita dal duomo fra il 1781 e il 1789, attribuendolo però alla successiva chiesa duecentesca – fu salutato come una eccezionale scoperta, catalizzando i successivi studi, concentratisi nel Novecento pressoché esclusivamente sul suo primo periodo di vita, mentre solo negli ultimi anni è stata approcciata l’analisi diacronica stratigrafica dell’edificio medievale.
Con questo contributo intendo offrire un quadro il più esaustivo possibile delle fonti e fare il punto sulla situazione della ricerca, oltre a indagare la fase della cattedrale meno studiata, cioè quella fra XI e XII secolo, prima della ricostruzione avviata da Giorgio da Como. L’intento è di fornire spunti per una auspicabile monografia su un edificio che, nonostante la forte presenza monumentale e la ricchezza della vicenda storica e artistica, oltre che fortemente identitario per Fermo e la sua comunità, non ha ancora conosciuto uno studio esaustivo.
La fabbrica paleocristiana. Si trattava di una basilica a tre navate, a una quota di m 1,35 sotto l’attuale fabbrica, lunga m 22,60 e larga m 14,30, terminante in un’abside semicircolare, dalla corda di m 5,5, sopraelevata di m 0,28 rispetto al corpo della chiesa. Tre basi circolari in travertino a toro e gola rovescia lasciano supporre che l’edificio fosse scandito da colonnati. I muri perimetrali, in laterizi di dimensioni uniformi, presentano all’esterno tracce di paraste in corrispondenza della curva absidale, della facciata e del lato nord, articolato da due aperture. L’edificio conserva intatto il pavimento musivo dell’abside, con un motivo di due pavoni affrontati che si abbeverano a un’anfora fra girali, e frammenti a motivi geometrici sono conservati nelle navate laterali. Alla datazione del litostrato si aggancia la cronologia della fabbrica, oscillante fra IV e VI secolo, quando è inoltre documentato per la prima volta un vescovo di Fermo, Fabio, menzionato in una lettera di Gregorio Magno del 580 circa. La basilica è concordemente identificata con la primitiva cattedrale: fanno propendere in tal senso la presenza di una cattedra, desumibile dal vuoto rettangolare presente nei mosaici pavimentali al centro della curva absidale, affiancata da subsellia per il clero di cui rimangono i resti, oltre che la dedica mariana, attestata dal X secolo ma ampiamente diffusa in epoca paleocristiana, e l’assenza di riferimenti documentari o testimonianze archeologiche che facciano pensare a una diversa localizzazione della sede. Si trattava dunque di una cattedrale urbana, la cui continuità di sito è in linea con la tendenza picena, dove le città medioevali generalmente si sovrappongono a quelle romane.
Il metodo con cui fu condotto lo scavo negli anni Trenta, dettato dall’istanza di portare alla luce la basilica paleocristiana più che da quella di far emergere le fasi evolutive dell’edificio, e la decisione di approfondire la quota, altrove a m 1,35, fino a m 2,30 nella navata centrale allo scopo di creare un piano di camminamento, hanno almeno in parte compromesso la lettura stratigrafica.
Alcuni dei quattrocento pezzi scultorei erratici, fra materiali romani, alto e tardomedievali, allora rinvenuti testimoniano un rinnovamento dell’arredo liturgico in epoca carolingia ma non sussistono evidenze archeologiche di un contemporaneo rifacimento della chiesa, proposto da Breccia e poco dopo da Cicconi, secondo una tendenza interpretativa diffusa negli studi sulla Marca della prima metà del Novecento, propensi a retrodatare fabbriche al IX secolo sulla base di ritrovamenti di frammenti scultorei. Come già emerso per l’Italia settentrionale, il panorama architettonico carolingio piceno va ormai ridimensionato, qualificandosi spesso gli interventi di VIII-IX secolo come operazioni di aggiornamento dell’arredo liturgico o della veste scultorea delle chiese.
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