Nella Biblioteca civica «Romolo Spezioli» di Fermo è conservato un manoscritto con alcune interessanti notizie sull’antica cattedrale metropolitana dell’Assunta nel XVIII secolo: Notizie appartenenti alla Chiesa Metropolitana di Fermo, che qui trascriviamo.
L’edificio, così com’è adesso, è il risultato dell’ammodernato realizzato alla fine dello stesso secolo. Un primo progetto di totale rifacimento della costruzione medievale era stato approntato da Urbano Paracciani, arcivescovo di Fermo dal 1764 al 1777, anno della sua morte. Pio VI dette parere favorevole, ma solo al restauro della costruzione, precisando nel breve: «cum tu non de novo edificare, sed dumtaxat reficere intendes». La ricostruzione della chiesa metropolitana rientrava nel più ampio progetto di razionalizzazione dell’assetto urbanistico di Fermo, rimasta di fatto una città medievale, e che doveva avere il suo compimento con la costruzione di una nuova cattedrale. Scrive l’erudito fermano Michele Catalani: «Il suo consiglio (dell’arcivescovo Paracciani)
era molto ascoltato ed era apprezzato dai romani pontefici e si può ben immaginare quanti benefici e privilegi egli poté ottenere da loro, grazie alla sua influenza. […] ottenne che venisse aperta una nuova strada, dopo aver spianato il terreno, grazie alla quale si potesse più comodamente accedere alla spianata del Girfalco e al tempio metropolitano (attuale via Mazzini, aperta nel 1771). Dopo aver sistemato le parti che furono ornate con artisti abbellimenti, la città fu arricchita di nuovi edifici, opere tutte che resteranno per sempre».
Sempre stando a Catalani: «Il cardinal Paracciani si rendeva conto che la chiesa metropolitana era di notevole antichità, degna di essere apprezzata; tuttavia a causa delle aggiunte eseguite nel corso dei secoli, addossate alla sua antica costruzione ormai risultava inelegente e senza proporzione, tale da sembrare inadatta alla dignità di un tempio così importante».
Nel 1781 l’arcivescovo Andrea Minucci, che aveva intenzione di portare a termine il proposito del suo predecessore, decise di realizzare, al posto dell’edificio medievale, una moderna costruzione neoclassica progettata dall’architetto imolese Cosimo Morelli, attivo in quegli anni nello Stato della Chiesa, e dette l’ordine di procedere alla demolizione della cattedrale, prendendo a pretesto il pericolo di un crollo imminente. Per raccogliere i fondi necessari, il presule impegnò le rendite del Collegio Marziale. Alcuni Fermani, contrari a quanto stava realizzando l’arcivescovo Minucci, scrissero una lettera di protesta alle autorità pontificie datata il 9 maggio 1782 da «I Nobili, i Cittadini ed il Popolo della Città di Fermo», che rimarcano come l’architettura gotica del «Magnifico Tempio nella parte più elevata del Colle [Sabulo], antichissimo monumento della Pietà de’ Fermani […] ha ancora il suo bello». Non sembra, però, tanto un problema tra due diverse concezioni estetiche, per semplificare, tra la cultura classicistica delle autorità cittadine e quella romantica dei Fermani, ma piuttosto un diatriba erudita tutta locale, sul vantaggio o meno di rinunciare a uno dei più “vetusti” monumenti cittadini, che, con la sua stessa esistenza, attestava l’antichità della città e, in particolare, della sua Chiesa.
Per risolvere la questione dovette intervenire Pio VI, che impose di fermare le demolizioni, arrivate alla prima campata della chiesa medievale. In questa situazione, il progetto di Morelli dovette essere ripensato. Le modifiche progettuali furono affidate all’architetto fermano Luigi Paglialunga, nominato direttore del cantiere, che riutilizzò la prima campata della chiesa medievale come una sorta di atrio d’accesso all’edificio neoclassico. Due porte permettevano di entrare nella nuova costruzione, una direttamente nella navata centrale, l’altra, poi murata, in quella di destra. Per l’interno, invece, Paglialunga seguì perlopiù il progetto di Morelli, che prevedeva uno schema a doppia croce greca. La partizione è a tre navate, divise da grandi pilastri scanalati, che sorreggono la trabeazione decorata da festoni, sulla quale sporge un cornicione aggettante. Il soffitto della navata centrale, dipinto con tempere monocrome commissionate nel 1787 al pittore sangiorgese Pio Panfili, creano un’illusionistica copertura a cupole.
Stando a un articolo della «Gazzetta della Marca», datato da Fermo 24 marzo 1788, in quell’anno era in piena attività il cantiere della cattedrale. Panfili era impegnato nella decorazione del «vòlto del gran tempio». Gioacchino Varlé, romano, ma attivo nella Marca d’Ancona, chiamato in città dall’arcivescovo Minucci, stava realizzando il bassorilievo dell’Assunta da collocare sopra il coro. Da Fossombrone era atteso il marmista Andrea Ascani da Sant’Ippolito, che doveva «porre in opera la gran mensa dell’altare maggiore, dell’altare del Suffragio, ed alcuni scalini, balaustre che condurranno al sotterraneo». Da Faenza, come è riportato dallo stesso articolo, doveva arrivare lo scagliolista per decorare tutti gli altri altari. Sappiamo che dei lavori in scagliola se ne occuparono i fratelli imolesi Ignazio e Cassiano Della Quercia, mentre gli stucchi furono realizzati dagli artisti locali Stefano Interlenghi, Domenico Fontana e, in un ruolo marginale, rispetto agli altri due esperti stuccatori, da Bernardino Bernardini. Quest’ultimo, che peraltro, insieme a Francesco Lupidi, era stato nominato soprintendente della fabbrica dal primicerio Ludovico Porti, realizzava allora «fiori di ogni genere ed altri ornamenti nelle cappelle che ora si stanno costruendo». Le dorature furono commissionate al montegiorgese Vincenzo Gaspari. Il fermano Giovanni Vecchi intagliò il coro ligneo, tuttora utilizzato, con cimase in ogni stallo, diviso in due reparti: dietro gli stalli e davanti i sedili e gli inginocchiatoi. Durante i lavori di ricostruzione le funzioni erano state spostate nella chiesa di Santa Maria del Carmine, fino al 1789, anno di riapertura della cattedrale.
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