Chi, all’inizio del nuovo millennio si fosse apprestato a far previsioni sulle sorti dell’impresa industriale italiana, non avrebbe potuto far altro che vederne il futuro condizionato dall’evoluzione dell’Unione Europea.
Se questa avesse intrapreso una strada il cui punto d’arrivo fosse qualcosa che assomigliava agli Stati Uniti d’America – con piena mobilità interna dei fattori per cui lavorare a Helsinki, Milano, Bilbao fosse la stessa cosa – l’Italia poteva concentrarsi sui suoi vantaggi comparati, sulle produzioni per la persona e l’abitazione o sulla meccanica e la chimica raffinate, sulle sue nicchie globali, lasciando ad altri la costruzione delle grandi reti, le tecnologie di frontiera.
Se per l’Europa le cose non fossero andate così, allora sarebbe stato necessario riflettere sulle cause politico-istituzionali che avevano portato al cosiddetto “approdo mancato”. Approdo alla frontiera dell’economia mondiale che sembrava possibile sullo slancio del miracolo economico. Era necessario riflettere su quelle carenze e trarne utili lezioni.
Come siano andate le cose nel vecchio continente è sotto gli occhi di tutti e tutti i giorni. Altro che Stati Uniti d’Europa, ha vinto il “sovranismo” della Merkel, della Brexit e, si parva licet, di Salvini.
Prima di addentrarmi nell’argomento di questo incontro, vorrei, come si dice, mettere le mani avanti, proporre un caveat a chi mi ascolta: in effetti ho scelto un titolo non semplice. Gli ultimi trent’anni sono materia complessa per uno storico, data la sovrabbondanza di elementi conoscitivi disponibili; certamente, lascerò fuori qualcosa. Mi accontenterei di indicare i capitoli in cui può essere scandita un’eventuale storia e le criticità del periodo considerato.
Iniziamo dal tema Stato, il quale ha avuto le sue
attività economiche senza dubbio dimagrite dal processo di privatizzazione. Ad
oggi, tuttavia, rimangono, in mano pubblica le quote di controllo di Eni, Enel,
Terna (la società che si occupa della gestione della rete elettrica), Italgas,
Snam, Saipem, StMicroelectronics, Leonardo-Finmeccanica, Poste Italiane,
quest’ultima trasformata da Corrado Passera alla fine degli anni Novanta in
vera e propria impresa, oltre al 100% di Rai e Fincantieri.
Che fare di questo ben di dio? Beh, innanzitutto proteggerlo nelle sue
proiezioni internazionali. È di qualche giorno la “sberla” che Fincantieri ha
preso a proposito della fornitura alla Marina australiana di 23 miliardi di
euro. Fincantieri presentava manifestamente nell’offerta il miglior rapporto
qualità/prezzo. La fornitura è andata agli inglesi. È ovvio che lo Stato deve
intervenire, in casi come questo, servendosi di tutti i mezzi diplomatici di
cui dispone, un elemento completamente trascurato nella gara australiana.
Dovremmo rifare l’Iri, per esempio rafforzando il ruolo di holding finanziaria di Stato già ricoperto a tutti gli effetti dalla Cassa depositi e prestiti? Personalmente ci starei, ma mi rendo conto che, per la grande maggioranza di voi, si tratta di un’ipotesi inquietante, data la storia degli ultimi anni dell’Istituto, e il perverso rapporto fra politica ed economia che in esso si era creato. Credo che tutte queste imprese vadano gestite come un gruppo orizzontale giapponese, un keiretsu, per il quale il quartier generale è rappresentato dagli incontri dei capi delle imprese il terzo giovedì di ogni mese. Si incontrano questi in un esclusivo albergo di Tokio, si scambiano informazioni, eventualmente si lanciano iniziative comuni, se convenienti, ma altrimenti ciascuno esce dall’incontro avendo la sua strategia e i suoi orizzonti temporali.