Gli Appennini, dai pennini alle app

dai pennini alle app

Perché si scrive, si fotografa, si racconta? Talvolta per immaginare il futuro, altre volte per ricordare il passato, sempre e inesorabilmente confrontandoli col presente. Può accadere allora, che una maestra, diventata dirigente al culmine di una quantità di realizzazioni, compiute ricostruendo una geografia di utopici desideri, riveda la sua immagine di esuberante maestrina ripercorrere i sacri luoghi di un pellegrinaggio laico, profanati dagli sconquassi della natura ma ancor più dall’inettitudine di quanti avrebbero dovuto ripercorrere un cammino già preparato.

Ed eccola Agata, la rossa elegante figurina, i bagagli carichi dell’entusiasmo del mondo intero, partire alla conquista di un’idea, lungo le strade fascinose ed impervie, nei primi giorni di un ottobre, a catturare quella lunga e inaspettata supplenza, quell’incarico di un mestiere capitato per caso, un ideale passe-partout per la libertà di vivere, inestimabile documento identitario che avrebbe plasmato il destino di una giovane donna figlia di un remoto borgo appenninico.

La cinquecento bianca, nuova per acquisto, logora per condizione, era un nobile destriero che si faceva strada in quel trionfo di colori che ammantava di luce la montagna e l’intero creato. Ma alla meta il paese era deserto e neppure un cartello indicava la piccola scuola. Fu l’impiegata postale a radunare le bambine e i bambini: insieme raggiunsero la scuola, uno dei soliti brutti edifici a forma di parallelepipedo, grigio, polifunzionale: l’aula scolastica per l’unica pluriclasse, l’ambulatorio medico, l’appartamento per l’insegnante.

Nessuno mi aveva insegnato a insegnare e pertanto nell’attesa di costruire il mio corredo di buone pratiche e di ulteriori studi, mi lasciai guidare da quanto non molti anni prima aveva allietato le mie giornate di scolara: era il bosco di castagni, miniera inesauribile di scoperte e di sperimentazioni, che si affacciava alle finestre delle numerose aule attraversate in quei cinque anni. Nel sottobosco adiacente la scuola, orgoglio personale perché a costruirla era stato il mio babbo, avevo ricevuto l’imprinting che mi avrebbe segnata per sempre: la convinzione che sull’altare della felicità di alzarsi per andare a scuola potesse essere sacrificata senza affanno qualche nozione per altro perduta non irrimediabilmente. Del resto, Rousseau sosteneva che in educazione il miglior modo di guadagnar tempo è quello di perder tempo.

La ricreazione, quella mattina, iniziò quasi subito e durò a lungo, un tempo non certo vuoto per i bambini che all’aperto correvano e imparavano gli esercizi e i giochi che nessuna bella palestra avrebbe potuto garantire. Osservavo quei bambini e i loro visi gioiosi si confondevano con altri volti ancora vivi nella memoria, giochi e grida che si perdevano tra il crepitio dei passi sulle foglie secche. Mi legava ai miei piccoli alunni anche la condizione giuridica della minore età; avrei votato per la prima volta, compiuti i ventuno anni in occasione del referendum sul divorzio.

Iniziarono dunque quelle trasferte che mi portavano alle otto e trenta del mattino in aula per iniziare il lavoro, e nello stesso modo in cui i miei insegnanti avevano fatto con me si cominciava con la preghiera. «La religione cattolica è fondamento e coronamento dell’insegnamento» recitava il dettato di quei programmi didattici (per lo più interpretati alla lettera) emanati nel 1955 a firma del ministro dell’istruzione Ermini da cui presero il nome. Avevano d’altra parte alcuni graditi corollari, tra cui si poteva annoverare la ricorrenza dell’11 febbraio, degnamente celebrata con un giorno di vacanza, a ricordo della firma nel 1929 dei Patti lateranensi, festa che nella mia esperienza di bambina sfumava nella ricorrenza della Madonna di Lourdes e nella storia tenera di Bernadette Soubiroux.

I lavori della giornata si avviavano, secondo i compiti affidati ai due cicli. Così nelle prime due classi si promuovevano le abilità di base, ovvero leggere, scrivere e far di conto, mentre a partire dalla terza si aggiungevano la storia, la geografia e le scienze. Si accingeva dunque la maestra a scrivere la data alla lavagna e tutti i bambini la copiavano in bella scrittura nel quaderno, unico a quadretti grandi, per la prima classe e, differenziato, a righe e a quadretti, di spessore diverso, per tutte le altre classi. Si iniziava con il dettato, uno per i più piccoli e l’altro per le tre classi terminali. L’accento posto sulla a e sulla o, sottolineato nel caso si trattasse di verbi, leggero nel caso le due vocali fossero state una preposizione o una congiunzione, sfumava in modo direttamente proporzionale all’età dei bambini. In seconda classe e in quinta, che si concludevano con l’esame, gli alunni avrebbero dovuto scrivere correttamente senza alcun aiuto sonoro da parte della maestra. L’esercizio quotidiano facilitava il conseguimento del risultato.

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