Floriano Grimaldi, Giuseppe Antonio Vogel Prete e antiquario dall’Alsazia alla Marca, Andrea Livi editore, Fermo 2018, 312 pp., € 24,00, 9788879694138
Il titolo del libro, che è articolato in quattro capitoli, seguiti da dense pagine dedicate agli scritti di Vogel e alla storia della loro fortuna, non tragga in errore: non è una biografia, o meglio, non è soltanto una accuratissima biografia, ma molto di più. È il quadro della cultura della Marca nel periodo tra fine Settecento e primo quindicennio dell’Ottocento denso di sconvolgimenti politici e sociali, caratterizzato dalla rivoluzione francese e dall’espansione della Francia napoleonica in Europa. In quel contesto si colloca la fuoriuscita dalla Francia rivoluzionaria dei tanti (circa 50.000 su 70.000) sacerdoti che rifiutarono il giuramento di fedeltà alla Costituzione civile del clero emanata nel 1790. Giuseppe Antonio Vogel (Altkirch 1756 – Loreto 1817) è uno dei preti “refrattari” che allora trovarono rifugio in vari paesi europei. Nel 1792 egli emigrò in Svizzera e per due anni si trattenne a Lucerna, uno dei centri di rifugio per i preti provenienti dall’Alsazia e dalla Lorena voluto dal nunzio Giuseppe Vinci (p. 13). Grazie ai contatti con vari prelati della Curia romana, specialmente con Giuseppe Fiaschetti, Vogel ottenne il passaporto per gli stati della Chiesa e poté recarsi a Fermo, dove giunse a fine ottobre 1794. A chiamarlo nella città picena era stato Giuseppe Colucci, il quale, venuto a conoscenza della perizia in diplomatica di Vogel, ne aveva richiesto la collaborazione per portare a termine le Antichità Picene, la poderosa opera in 31 volumi con cui Colucci mirava ad illustrare le “patrie antichità” assecondando la passione per la riscoperta e lo studio della storia patria che caratterizzò nel XVIII secolo il clima culturale regionale.
Dal 1794 fino alla morte, Vogel rimase nella Marca, e nella veste di “antiquario” si spostò in vari centri delle odierne Marche centro meridionali – Fermo, Matelica, Cingoli, Recanati, Loreto, per citarne alcuni – dove trascrisse pergamene, riordinò archivi comunali e privati e fece il regesto dei documenti ivi conservati. È a questa sua preziosa attività che si deve la salvaguardia di un patrimonio di memorie, base di un’identità cittadina e regionale allora orgogliosamente rivendicata dall’élite socioculturale della Marca. La sua attività appare irriducibile ad un puro e semplice «facchinaggio erudito», definizione usata dagli storici illuministi, poco usi al contatto con gli archivi, per qualificare il paziente e non facile lavoro di ricerca dei documenti del passato, sia perché egli scrisse anche opere storiche, sia perché dal suo scavo nell’antico trasse linfa e argomenti per proposte per il presente. A questo proposito, basti pensare ai suoi consigli e suggerimenti dati nel 1816 all’amico Filippo Solari in tema di istruzione pubblica, gli scritti sui miglioramenti in agricoltura, sull’ apicoltura, che mostrano la sua conoscenza della cultura agronomica e l’aspirazione a mettere la sua competenza al servizio dell’opera di rinnovamento della società e dell’economia.
Nella prima parte del libro, il quale rappresenta l’esito felice di lunghi anni di studio e di precedenti ricerche dell’A., Floriano Grimaldi ripercorre gli spostamenti del prete alsaziano da una città all’altra della Marca e rende accuratamente conto dell’importante lavoro da lui compiuto. A quel lavoro Vogel dedicò tanto tempo e fatica in segno di gratitudine – com’egli asserì (p. 75) – per la terra che l’aveva accolto. Ma non si può non percepire in quel suo indefesso affaticarsi per riordinare e raccogliere memorie del passato anche dell’altro: l’immersione nel passato è, infatti, anche un modo per dimenticare, almeno per un poco, il presente dell’età sua, che non apprezza, e la sua personale condizione di esule, più volte tormentato dalla nostalgia della patria e dal crescente timore dell’impossibilità del ritorno. Senza contare che a spingerlo è anche la sua personale passione per la ricerca, dalla quale per altro si aspettava riconoscimenti maggiori e più rispondenti alle lusinghe e promesse fattegli per la sua venuta nella Marca. Se lo studioso Vogel è in qualche modo appagato dalla sua attività, l’uomo Vogel avverte una certa delusione per il trattamento riservatogli, specialmente quando confronta il suo operoso impegno al tranquillo rifugio di tanti suoi connazionali. Non soltanto fu tardiva la nomina a canonico della cattedrale di Loreto, ottenuta nel 1816 anche grazie all’interessamento dell’amico Filippo Solari, ma non ebbe neppure il riconoscimento dovuto per il merito del suo lavoro, che fu misconosciuto e sfruttato da uomini come Giuseppe Colucci e il minore conventuale Stefano Cataldo Rinaldi. Rinaldi, Antonio Brandimarte e altri sono gli studiosi con cui, attraverso la corrispondenza, Vogel intrattenne una conversazione erudita analoga a quella in uso dal XVII secolo fra i membri della Repubblica delle lettere, ma aggiornata, quanto ai temi, al gusto del primo Ottocento.
All’importante tema dei rapporti fra Vogel e Monaldo e Giacomo Leopardi è dedicato il quarto capitolo, dove l’A. esamina con competenza e grande ricchezza di riferimenti sia la documentazione in proposito, sia le tesi avanzate nel tempo dalla storiografia sulla rilevanza di tale rapporto, in particolare sul possibile influsso di Vogel sulla concezione leopardiana di Zibaldone che l’A., in modo convincente, tende ad escludere.
Le ultime due parti del volume (Giuseppe Antonio Vogel e i suoi scritti e Giuseppe Antonio Vogel. Scritti lauretani e recanatesi) rendono esplicita l’importante finalità “di servizio”, si potrebbe dire, sottesa al libro, in quanto offrono agli studiosi un ricchissimo arsenale di notizie e bibliografia su Vogel e le sue opere, la cui conoscenza appare imprescindibile per chi voglia impegnarsi nello studio della storia culturale della Marca nel primo Ottocento.
Donatella Fioretti