L’intuizione di un rapporto stretto, e in molti casi direttamente causale, tra epidemie e fattori climatici è molto antica, sia nel caso in cui l’ambiente fosse considerato come ostile e patogeno, sia quando si cominciò a considerarlo nella veste più favorevole di natura medicatrix, capace non solo di diffondere i contagi, ma anche di sanarli. La grande pioggia manzoniana che dilava via la peste si propone come paradigma di un rapporto che si va mutando. La lettura del libro di Franco Foschi Epidemie nella terra di Leopardi ci aiuta a scoprire come il conte Monaldo Leopardi affianchi all’attenzione verso un’epidemia di vaiolo un sincrono interesse per gli eventi climatici.
Così scriveva infatti il conte Monaldo alla data del 27 settembre 1801:
Corre attualmente una perniciosissima influenza di vajolo. Ha questa girata tutta l’Italia nelle cui varie città ha fatto strage considerabile. Cominciò qui benignamente nella scorsa primavera, ma ora infierisce a segno che qui ne sono morti oggi solo otto nelle parrocchie delle città. Giorni addietro morì di questo male una donna gravida di tre mesi il cui feto estratto vivo, era pieno di vajolo anch’esso. Parecchi adulti sono anche morti nelle vicine città.
Qui si può notare come il quadro osservativo, per quanto Monaldo non lo rilevi espressamente, corrisponda alla riconosciuta caratteristica dell’epidemia di vaiolo di farsi particolarmente perniciosa alla fine dell’estate.
Soffermiamoci sulla meticolosità di Monaldo nei riguardi dei suoi figli:
«Di questo vajolo-vaccino» – continua infatti a riferire il conte aggiungendo una nota personale – scopertosi da non molto in Inghilterra dal Dr. Jenner, feci io venire nei mesi scorsi di primavera la marcia da Genova, procuratemi dal mio agente in Roma Sig. Bonini col mezzo del Sig. Principe Doria. Fui il primo in questa Città, anzi intera Provincia e credo nello Stato sicuramente, perché né Roma né Ancona né alcun altro paese aveva di queste materie; fui il primo dico che accreditai questa nuova benefica scoperta e vi sottoposi prima di ogni altra la mia piccola Paolina ed alcuni giorni appresso gli altri due figli appena liberatisi da una violenta tosse convulsa.
Non essendo convinto dell’esito della vaccinazione effettuata in primavera, il conte Leopardi decide poi di ricorrere ad una nuova vaccinazione nell’autunno del 1801, e anche di questa informa il suo diario nei giorni in cui inoculò nuovamente il vajolo-vaccino ai suoi tre figli Giacomo, Carlo e Paolina: iniziò le pratiche il 2 ottobre 1801 alle ore 23, inoculando il vajolo-vaccino ai tre figli; e intanto a parte annotava giornalmente le condizioni meteorologiche di Recanati: il 2 ottobre 1801 era piovuto sia mattina che sera facendo molta acqua. Man mano che teneva d’occhio il braccio dei figli ai quali aveva inoculato il vaccino, il diarista continuava ad annotare anche il clima del borgo. Il 3 ottobre 1801 era stato piovoso e il 5 ottobre nuvoloso senza pioggia.
Con la scorta di queste informazioni che evidentemente riteneva importanti al fine della riuscita della pratica innovativa della vaccinazione, durante un mese circa egli seguì l’evolversi della ferita da lui effettuata sul braccio dei suoi, da ottobre a novembre, quando infine fu sicuro che l’operazione era riuscita.
Bisogna rendere merito al conte Monaldo di aver messo la vaccinazione a disposizione di tutti bambini di Recanati, per quanto le famiglie meno abbienti fossero per loro cultura assai poco favorevoli a questa pratica medica. In ogni caso il 19 ottobre 1801 con viva preoccupazione Monaldo rende conto del diffondersi del male: «Il vero umano vaiolo continua la sua strage e l’influenza comincia a dilatarsi nel nostro quartiere».
La storia dell’epidemiologia non può fare a meno degli scritti ottocenteschi di Alfonso Corradi, noto medico epidemiologo di Bologna, autore degli Annali delle epidemie, opera in cui gli eventi meteorologici si trovano riordinati insieme ad una moltitudine di vicende, notizie, malattie e memorie. L’epidemiologo e storico bolognese non si limita a raccogliere i resoconti storici e diaristici sul clima, ma riferisce le notizie delle più importanti carestie ed epidemie, nella considerazione del nesso che intercorre tra queste e gli eventi climatici.
Gli Annali di Corradi arrivano al 1850, e costituiscono la fonte più importante di informazioni meteorologiche, epidemiche e sismiche riguardanti l’Italia in generale, con prevalenza di interesse per la sua terra, l’Emilia Romagna. In effetti i medici dell’Ottocento davano grande importanza agli eventi meteorologici (caldo, freddo, umido, ecc.) in ragione della loro influenza sulla salute umana.
Nel 1801 scriveva:
Il vajolo, il morbillo, la tosse ferina, tolse di vita a moltitudine di bambini a Venezia, Verona, Padova, Ferrara, Bologna».
Il Corradi aveva numerosi contatti con i medici sparsi un po’ in tutta Italia e da loro riceveva notizie in merito al propagarsi delle malattie infettive e contagiose che si verificavano nelle città, borghi e campagne. Dal punto di vista climatico in generale possiamo dire che l’anno 1801 abbondò di nebbie e di piogge. Ma forse più dello stesso catarro si diffusero le febbri periodiche un po’ ovunque, non solo nei luoghi bassi o paludosi ma anche nelle città. In estate si aggiunsero enteriti, coliti, gastro-enteriti, dissenterie, ecc.
Un altro esempio di interazione tra clima e salute umana viene riportato dal Corradi nel mese di giugno 1831 a Verona:
il caldo umido porta in volta a gran numero le malattie reumatico-mucose, proprie singolarmente dello stomaco e delle intestina. Abbiamo nella città moltissime diarree, colére semplici, coliche ecc. Sembra regnar dappertutto una morbosa influenza, che quasi epidemicamente attacca cittadini e foresi di ogni età ed ogni sesso, la valle e il monte, il colle ed il piano.
Se poi seguiamo il corso degli eventi funesti (tempo buono e salute non sono notizie) vediamo chiaramente come epidemie e carestia siano dame che accompagnano il clima in ogni suo andamento. Parliamo in particolare delle Marche e delle regioni limitrofi durante il biennio 1816-1817. Durante i primi anni della Restaurazione le condizioni in cui versavano i paesi marchigiani erano gravi, se non addirittura drammatiche, per gli eventi atmosferici sfavorevoli. Il 1816 è ricordato universalmente come «l’anno senza estate» a causa dell’immane eruzione del vulcano Tambora, le cui polveri e aerosol, oscurando il Sole, provocarono un forte raffreddamento e una intensa piovosità. Ne seguì una grave carestia per mancati raccolti e successivamente la diffusione di alcune gravi epidemie sulle quali stiamo riferendo. Secondo gli autori della ricerca, L’alta mortalità nel 1816-1817 e gli “inverni del vulcano”, la nube di nebbia secca acida presente nell’atmosfera dall’aprile 1815 e rimasta sino oltre il 1817, poteva avere danneggiato parzialmente i raccolti della fine dell’estate 1815 e in modo grave quelli del 1816 e della primavera del 1817. La popolazione della Toscana si era trovata dunque ad affrontare circa 20 mesi di avversità meteo-climatiche con tutte le problematiche conseguenti. La carestia e l’alta mortalità nel 1817 furono generate da questo quadro di condizioni climatiche avverse: una parte della popolazione superò la carestia del 1816 grazie alle scorte alimentari, che però si esaurirono nel 1817 per la gente di montagna e in collina, ma non per quella di pianura. I ricercatori affermano che per la popolazione di collina e bassa montagna la carestia forse durò più a lungo, dall’ottobre 1815 all’agosto 1817. L’epidemia di tifo petecchiale a cui viene attribuita la maggiore mortalità negli anni 1816, 1817 e 1818 fu conseguenza dello stato di estremo degrado della popolazione, del suo indebolimento fisico accompagnato alle precarie condizioni igienico-sanitarie, il tutto accentuato dalla moltitudine di affamati erranti alla ricerca di cibo. Oltre al tifo petecchiale si stava diffondendo anche il colera, malattia che forse ha avuto il più grande impatto sui popoli dell’Ottocento per il suo alto tasso di mortalità. Le prime avvisaglie si erano avute nel 1817: dall’India si era esteso in varie parti dell’Asia e nel 1831 aveva raggiunto Mosca; da lì s’era propagato a San Pietroburgo e poi nelle altre parti dell’Europa colpendo man mano Galizia, Moldavia, Ungheria, Praga e Vienna.
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