Edifici di culto nelle Marche sullo scorcio dell’alto Medioevo: valori, criticità e prospettive della ricerca

Quando parliamo di Marche per aspetti che riguardano la cultura medievale dobbiamo assumere la realtà di un’identità territoriale a dir poco problematica. È ben noto che gli attuali confini amministrativi non corrispondono alla geografia politica medievale, peraltro assai mutevole. La Pentapoli, il Ducato di Spoleto, la Marca di Ancona o la Marca di Fermo sono state istituzioni in continuo mutamento, disgregate, allargate o ridimensionate, condividendo con regioni limitrofe fattori politico-istituzionali, economici e culturali. La stessa morfologia del territorio, su paralleli assi orizzontali, sembra aver condizionato la dinamica dei poteri locali generando una pluralità di ‘domini’ definita «paratattica» e da cui è derivata la «parcellizzazione degli interessi storiografici». Volgendo lo sguardo agli studi di storia dell’architettura possiamo ben constatare come questo giudizio si possa riscontrare anche al di fuori del dominio strettamente storico.

Con questi brevi appunti intendo ancora una volta lanciare l’appello per promuovere una ricerca che oltrepassi i confini convenzionali, che guardi a un orizzonte europeo e che tenga conto di fenomeni complessi, dal ruolo della committenza agli articolati rapporti tra monachesimo, aristocrazia e potere vescovile, dalle scelte costruttive alla mobilità, all’insediamento fortificato e al paesaggio storico – si pensi al ruolo dell’Appennino e alla sua permeabilità in quanto elemento osmotico. Sono temi fortemente connessi tra loro che rivelano la ricchezza e la complessità dei possibili percorsi di indagine, stimolando nuovi approcci metodologici, di carattere sistemico. Faccio l’esempio dei committenti, figure che grazie alla rete di contatti personali di cui godevano rivelano una notevole capacità di aggiornamento in materia di costruzione e si mostrano in grado di organizzare cantieri che prevedevano l’apporto e lo sviluppo di nuove conoscenze e di maestranze specializzate. Il vescovo di Fermo Udalrico è l’unico esempio studiato sotto questo profilo, ma in generale manca uno studio monografico sull’episcopato fermano. Da qui anche l’importanza che rivestiva la scelta di particolari tipologie architettoniche, in quanto capaci di segnare il paesaggio con il proprio ‘impatto iconico’. Esiste la consapevolezza da parte del potere locale della forza di rappresentazione e di percezione insite nelle forme architettoniche. Gli enti ecclesiastici, così come le signorie rurali, costruiscono il paesaggio, facendo dell’architettura un uso anche identitario, ideologico, riflesso dell’adesione a specifiche istanze politico-religiose e talora portatore di novità compositive, pur riadattate nella cosiddetta “tradizione costruttiva locale”.

E tuttavia, per conoscere davvero di quale “tradizione locale” stiamo parlando, affinché questo non sia solo un concetto astratto, dobbiamo insistere su un altro punto dolente. Mi riferisco all’esigenza di far crescere le attività di ricerca in campo archeologico e storico-architettonico per far riemergere un patrimonio per molti versi ancora occultato in contesti costruttivi più volte rielaborati nei secoli successivi. Manca a tutt’oggi uno studio sistematico e complessivo sull’edilizia sacra altomedievale, integrata con indagini comparate alle fonti archivistiche ed archeologiche. Verso questa direzione è orientato il lavoro, in corso d’opera, di ricognizione e schedatura degli edifici di culto tra IV e X secolo dedicato alla Marche, che si inserisce nel più ampio progetto internazionale del CARE (Corpus Architecturae religiosae Europee), già ricco di risultati per molte aree geografiche.

Tra i più recenti singoli contributi dedicati all’età carolingia emergono tre episodi ben indagati: l’abbazia di Rambona, dove le analisi archeologiche di Guidobaldi hanno fatto riemergere segmenti eloquenti di una chiesa a navata unica e transetto sporgente triabsidato, e quella di S. Croce al Chienti, per la quale tuttavia i dati ricavati anche in occasione dei restauri curati dalla Soprintendenza nel 2010 hanno condotto a due diverse interpretazioni riguardo la fase più antica del cenobio, fissata da Sahler al tardo IX secolo e da D’Amico alla seconda metà del Mille. Della cattedrale ascolana Betti ha poi riferito le strutture del transetto dell’attuale fabbrica alla fase carolingia dell’episcopio piceno. Ma al di là delle singole e fortunate ricognizioni va da sé che senza il supporto di scavi archeologici, rilevazioni grafiche, analisi stratigrafiche di elevati e studio dei materiali sia oltremodo difficile redigere un catalogo sistematico.

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